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I Love Radio Rock

Regia di Richard Curtis vedi scheda film

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La recensione su I Love Radio Rock

di FABIO1971
6 stelle

Diretto dal Richard Curtis di Love Actually (ma soprattutto sceneggiatore, tra gli altri, di Quattro matrimoni e un funeraleIl diario di Bridget Jones, nonchè fidato autore per Rowan Atkinson nei suoi exploit, sia cinematografici che televisivi, come Mr. Bean), I Love Radio Rock costituisce un'occasione sprecata: analizzati singolarmente, infatti, gli ingredienti che compongono il film lascerebbero presagire ad una lauta scorpacciata di divertimento al sapore speziato (siamo nei floreali Sixties) di sesso, droga & rock'n'roll. C'è il "1966", annata chiave per l'evoluzione musicale tra pop e rock, per il costume, per l'emancipazione giovanile. C'è l'educazione sentimentale di un diciottenne. C'è il senso della nostalgia per il mondo che fu ("the best years of our lives") e, contemporaneamente, c'è la meraviglia per il nuovo (la musica rock) che avanza, trasfigurati in un appassionato inno alla libertà e all'amore. Ci sono amabili punture di spillo alla società inglese più bacchettona. C'è lo spasso ed il ritmo della commedia. C'è il gusto galoppante per la citazione, con omaggi e inside jokes a figure leggendarie della storia del rock (dal più smaccato, quello a Lester Bangs, ritratto nel personaggio interpretato da Philip Seymour Hoffman, a sottigliezze più raffinate, tipo la copertina di Electric Ladyland di Jimi Hendrix, che riecheggia nella sequenza dell'orgia sulla nave). C'è, naturalmente, la magia della musica, inscritta nell'avvincente epopea delle radio-pirata inglesi: all'epoca, infatti, l'establishment britannico (qui rappresentato da un irresistibile e simpaticamente odioso Kenneth Branagh) non tollerava la portata eversiva del "Nuovo Verbo", limitandone l'ascolto a soli 45 minuti sulla radio di stato ed a trasmissioni televisive come le celeberrime Top of the PopsReady Steady Go!, dando così il via alla nascita di numerose radio-pirata, tra cui quella Radio Caroline che trasmetteva clandestinamente 24 ore no stop di sano rock'n'roll da una nave ancorata al di fuori delle acque territoriali e di cui il film ripropone per sommi capi le movimentate vicende. Insomma, un calderone adrenalinico e scintillante che necessitava, per una piena riuscita, solo di un unico, fondamentale ingrediente: la coesione. Amalgare con sapienza ed inventiva i tanti spunti del copione, firmato dallo stesso regista, era l'unica difficoltà, e forse la troppa carne al fuoco ha finito per rendere l'impresa quasi impossibile, fatto sta che il quadro d'insieme che emerge dalla visione del film fa acqua da molte parti, come la stessa nave che affonderà nel finale: troppo macchiettismo, troppe dicotomie superficiali e moralismo a buon mercato (il rock è il Bene, il resto è il Male), troppe mossette e strizzatine d'occhio dagli attori, perennemente con il sorriso stampato sul volto (ma resta memorabile la performance del più simpatico del cast, il Nick Frost di L'alba dei morti dementi), mentre la regia eccede in effetti patinati e smarrisce spesso la verve dell'ispirazione ed il ritmo della messinscena nelle troppe e dispersive sottotrame e nella melassa del sentimentalismo, finendo per diventare prevedibile negli sviluppi drammaturgici e faticando non poco ad accaparrarsi il coinvolgimento dello spettatore più smaliziato. Che comunque lo spettacolo allestito da Curtis possegga una sua indubbia vitalità è innegabile ed infatti I Love Radio Rock non è assolutamente da buttar via: irrita profondamente, però, il rimpianto per come sia stata gestita l'operazione, smorzando il più possibile i toni, evitando di "osare" proprio nei momenti in cui un po' di sana cattiveria avrebbe giovato al respiro complessivo del film. Di cui rimarrà senz'altro impressa nella memoria la strepitosa colonna sonora, che presenta canzoni immortali (A Whiter Shade of Pale dei Procol Harum, My Generation degli Who, Father and Son di Cat Stevens, Let's Spend the Night Together dei Rolling Stones, All Day and All of the Night e Sunny Afternoon dei Kinks, Wouldn't It Be Nice dei Beach Boys, The Wind Cries Mary di Jimi Hendrix, I Feel Free dei Cream, Nights in White Satin dei Moody Blues, più altre memorabili perle ad opera di Smokey Robinson, Leonard Cohen, Otis Redding, Jeff Beck, Martha and The Vandellas...) e piccoli gioiellini meno inflazionati (I'm Alive degli Hollies, Stay with Me, Baby di Duffy, Yesterday Man di Chris Andrews, The Happening delle Supremes, With a Girl Like You dei Troggs, la Elenore dei californiani Turtles che diventerà Scende la pioggia nella versione nostrana cantata da Gianni Morandi, The Letter dei Box Tops, Fire dei Crazy World of Arthur Brown, Lazy Sunday degli Small Faces e tanto altro ancora), ma è un "mordi e fuggi" che alla lunga finisce per privarla di spessore emotivo: della maggior parte dei brani, infatti, ci viene fatta ascoltare quasi sempre una manciata di secondi, e non per incuria o sciatteria ma per precisa scelta stilistica, dettata dalle esigenze di infondere maggior ritmo alla narrazione e, soprattutto, di accompagnare le "esibizioni" dei vari deejay. Poi, senza dover necessariamente indossare le vesti del musicofilo pedante, basterebbe citare uno dei brani più famosi della colonna sonora, Won't Get Fooled Again degli Who (che accompagna le sequenze "Titanic-style" della nave che si allaga prima di colare a picco), tratto dall'album Who's Next, ovvero 1971, per notare subito che il film è farcito eccessivamente con incongruenze e anacronismi (ma c'è anche Let's Dance, di David Bowie, 1983, oltre ad un'altra decina di brani successivi all'anno in cui è ambientato il film) che ne sminuiscono l'attendibilità storica e ne smorzano la godibilità: l'elenco è lunghissimo, da Jimi Hendrix, citato in un dialogo del film mentre in sottofondo si ascolta la sua The Wind Cries Mary ed apostrofato con commenti osannanti quando ancora, nel 1966, non aveva inciso un disco ed era tutt'altro che conosciuto, ai modelli di giradischi utilizzati, di generazione successiva, fino ad arrivare ad altri errori non necessariamente musicali: il personaggio interpretato da Kenneth Branagh, ad esempio, è un reazionario di destra, mentre il suo corrispettivo reale (Tony Benn) apparteneva alla corrente socialista dei laburisti, il personale della nave e gli addetti alla sala macchine, inquadrati durante il film, che nel naufragio finale spariscono (saranno morti? Perchè sono gli unici a non essersi salvati, nel caso?), e tanto altro ancora. Si parlava di precise scelte stilistiche, come dichiarato dallo stesso Curtis, intenzionato a non basarsi su una storia vera e documentata, quella della storica Radio Caroline, ma soltanto ad ispirarsi ad essa, per ricrearne atmosfere e ambientazione e limitandosi a fondere l'anedottica sull'argomento (il matrimonio sulla nave accadde veramente, i colori della nave-radio pirata sono gli stessi dell'originale Radio Caroline, i vari deejay sono tratteggiati ricalcando quelli reali e più famosi dell'epoca) con gli sviluppi della trama: ma alla lunga il gioco diventa prevedibile, il film perde mordente e spesso si appiattisce (per nulla aiutato, tra l'altro, dalla sua eccessiva durata) nello stereotipo. Un'occasione sprecata, come detto: e Velvet Goldmine, ma anche Quasi famosi, finiscono per restare modelli insuperati ed irraggiungibili.

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