Regia di Pupi Avati vedi scheda film
Se nell'arte si ammettesse, come categoria, "l'inutile", in essa potremmo collocare quelle opere – invero tristi - in cui un autore cerca invano di imitare il proprio stile. In questo infelice tentativo sembra incorso Pupi Avati, con questo film in cui l'amarezza, anziché avere l'accento pungente e acidulo della nostalgia alla Amarcord, ha l'alone acquoso della memoria ormai sbiadita. Avati mette insieme, un po' a fatica, i tizzoni spenti delle sue passate ispirazioni, cucinando un bozzetto tiepido e friabile, che non è né grottesco né satirico, e non sa di niente. I personaggi-tipi sono talmente stilizzati da non poter nemmeno aspirare al rango di macchietta: non c'è carne intorno allo scheletro delle loro definizioni (il ladro-maniaco sessuale, il benzinaio-cantante, il giocatore di biliardo-viveur), e nei loro polmoni non c'è aria che possa gonfiare le vele del racconto. Lo stesso spirito dell'amicizia è ridotto ad un becero gusto della burla, che non diverte né sorprende; le presunte trovate si sviluppano tutte con una prevedibilità da manuale. Davvero non si coglie il senso di questa operazione, troppo piatta per essere autobiografica, troppo esile per poter essere retrospettiva. L'eco del passato, a cui l'opera si sforza di attingere una qualche nobiltà letteraria, svapora come l'ultimo fiotto d'aria da un palloncino sgonfio; quel che resta è soltanto un floscio strascico, insipido e stantio come i ricordi che, anziché emergere dal cuore, sono tirati fuori da un cassetto.
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