Regia di Yojiro Takita vedi scheda film
C’era grande curiosità per il film giapponese Departures di Yojiro Takita, regista molto attivo in patria e fresco realizzatore del film su Sanpei-the fisher boy, cult intramontabile per chi era ragazzino negli anni ’80.
Evento di punta del Far East Film Festival di Udine del 2009 e vincitore a sorpresa dell’Oscar dello stesso anno come Miglior Film Straniero ai danni del superfavorito Valzer con Bashir di Ari Folman, Departures è in effetti una bella sorpresa, un film classico su un tema difficile che ha stregato l’Academy fino a farla capitolare. E mai metafora fu più calzante.
Daigo Kobayashi, violoncellista di Tokio rimasto senza lavoro dopo la dismissione dell’orchestra in cui suonava, decide di tornare nella città natale in compagnia della moglie per ricominciare una nuova vita. Trova lavoro in una agenzia di ricomposizione di salme, la nuova vita ricomincia così dalla morte.
C’è un sottile filo di ironia che aleggia nelle vicende di Daigo, quel senso del grottesco prosciugato fino alle sue estreme manifestazioni dall’estetica tipicamente orientale che riconduce ad un semplice sguardo attonito, si sublima in un verso gutturale che suona alieno, si cristallizza in una qualsiasi situazione in cui l’immobilità presume un grande turbamento interiore. A partire dall’equivoco per cui al colloquio di lavoro il protagonista scambia l’agenzia funebre per una agenzia di viaggi, nonostante le bare appese al muro, la leggerezza e il pudore sono i sentimenti con i quali il regista tratta una materia già di per sé ostica da maneggiare.
Daigo apprende dal suo capo-guida spirituale il rito funebre. L’arte della ricomposizione dei cadaveri e la vestizione, il mondarli dalle scorie terrene, truccare i loro visi per renderli meritevoli del ricordo dei vivi e decorosi nel passaggio all’altra vita, è celebrata dalla saggia compostezza dei movimenti simile ad una silenziosa danza antica. Un rito che non ha nulla di religioso, il dogma non è presente, piuttosto è la restituzione di un’immagine il più simile possibile all’anima del defunto. La sensibilità di Daigo, mutilato dalla mancanza del padre fin dalla tenera età è ciò che gli permette di interpretare l’essenza dell’essere umano “in partenza” ed eseguire il suo compito con distaccata, professionale quanto empatica partecipazione.
Nonostante la figura del nokanshi ”il ricompositore di salme” appartenga profondamente alla cultura orientale, la cifra stilista composta e lineare ricca di lirismo e semplici metafore rende universalmente comprensibile il senso della pellicola rigorosamente trattenuta tra sorriso e commozione evitando con sapienza di scadere nella farsa come nel ricattatorio.
La morte è ‘na livella, diceva Totò nell’omonima bellissima poesia, le differenze sociali si azzerano, i pregiudizi si stemperano e su quei corpi debitamente agghindati dall’arte funebre si materializzano i sentimenti più puri e spontanei, i rimpianti si arroccano sulle mani giunte e tutto l’ardore vitale dell’erompere emotivo di fronte a quella misteriosa immobilità pacata e triste nulla può contro le fiamme della cremazione che consumano il lutto riducendolo a ricordo e si trasformano in aironi in volo, messaggeri dell’anima del defunto.
Departures è un film di forte impatto emotivo che elude l’autocompiacimento con fermezza e parla con delicatezza del “grande rimosso” della cultura occidentale, il problema per cui nonostante il benessere e il progresso ancora ottusamente si muoia. La morte per Yojiro Tacita è un pretesto per parlare di vita, del suo sapore tristemente buono, dell’anima, della riscoperta delle proprie radici. Una pietra di paragone insomma con la quale misurare i sogni e dare corpo ai desideri più intimi. Una pietra che trasporta messaggi non verbali, Daigo ne sa qualcosa.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta