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Nemico pubblico. Public Enemies

Regia di Michael Mann vedi scheda film

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La recensione su Nemico pubblico. Public Enemies

di scapigliato
10 stelle

Con l’anacronistica e coinvolgente canzone di Otis Taylor “Ten Million Slaves”, Michael Mann apre le danze di piombo del suo Dillinger, uno dei “public enemies” della grande depressione americana dei ’30, il cui volto pulito ma oscuro di Johnny Depp è uno dei tanti valori aggiunti di questa rifondazione epico-postmoderna di cui il regista sembra essere il portabandiera. Ambiguo tra scelte classiche e moderne, l’autore di Public Enemies gioca sull’anacronismo in diverse sue declinazioni. Come già detto, la canzone di Otis Taylor non è di quel mondo e cozza stupendamente con la partitura classica di Elliot Goldenthal. Forse, proprio per il gioco anacrostico del film, invece della jazzatissima versione di Diana Krall del vecchio hit “Bye-Bye Blackbird” si poteva proporre il bluesaccio sbiascicato da Joe Cocker nel ’69 o la sua più recente unplugged version del 1996. Fatto sta che gli anacronismi continuano con la patinatura di certi ambienti e certi vestiti, lungi dall’essere aderenti alla realtà dell’epoca come dalle forme rappresentative del cinema sporco anni ’70 che aveva ripreso i miti del gangsterismo per controcultura al sistema. Ma soprattutto lo “sfasamento” temporale è nell’aspetto del racconto. Come fa ben notare Carlos Marañón sulle pagine di Cinemanía di luglio (con il titolo di Enemigos Públicos il film è uscito in Spagna il 14 agosto 2009) al tema gangsteristico o a qualsiasi argomento storico-epico spetterebbe per decreto una regia coppoliana o una fotografia classica come usata in Era Mio Padre di Sam Mendes, 2002. Invece Michael Mann cambia le carte in gioco e con una High-Definition estetizzante, quindi anacronistica per il tema trattato, e l’abbondante uso del digitale che in Mann ingigantisce il cinema invece che rimpicciolirlo, propone una nuova estetica - per adesso solo ibrida - con cui tornare a parlare del mito che fu. Come in The Assassination of Jesse James by the Coward Robert Ford, il mito ribelle e banditesco viene estetizzato, formalizzato in patinature di classe, dando alla rappresentazione storica un’anima metastorica - lezione fin troppo leoniana del mito - e proponendo imput moderni e postmoderni come segni di decodifica della rappresentazione del mito. La grana grossa, la bellissima fotografia di Dante Spinotti, il digitale che dà verità alle scene e ti rimpalla nella storia come uno dei tantissimi proiettili sparati, le inquadrature che parlano western, gli ambienti abbacinanti e tutto il resto di una messa in scena tesa alla leggendarietà del racconto invece che alla sua veridicità sono tutti segnali di un’ambiguità autoriale che non è un demerito bensì un merito di intenzionalità.
É anche vero che non tutto il film è “leggendario”. Ci sono raccordi diretti con estrema maestria manniana come in Heat, ma anche scene che nulla aggiungono al discorso di mitificazione della vicenda gangsteristica. Invece, scene imprescindibili per qualsiasi futura trattazione critica sono: la sparatoria iniziale nel piazzale del carcere durante la prima sequenza di evasione dove l’architettura piatta ed orizzontale della scena con quel Johnny Depp fallico, fisso e inamovibile lì in centro a sparare come un diavolo ti lascia senza parole e col cuore sfinito; la sparatoria notturna al Little Bohemia Lodge; l’incontro in gabbia tra Depp e Christian Bale che ricorda senza nasconderlo - viste le attese - quello tra De Niro e Pacino in Heat; la scena cluo e madre dell’intero film, una mise en abyme da pelle d’oca, quasi “postuma” per l’effetto che sa creare, è la scena di Johnny Depp alias Dillinger che entra nell’edificio della polizia di Chicago un giorno prima che lo uccidano, sfida ulteriormente il sistema e se ne prende gioco entrando senza il più piccolo problema nel “Dillinger Squad” e vedere appese alle pareti le foto dei suoi compagni, delle sue gesta, gli articoli di giornale che parlano di lui e tutte le più impercettibili sensazioni autocognitive; fino alla sua ultima uscita con tanto di cinema profetico e morte dietro l’angolo, una sequenza assurda, piena di inquadrature diverse, rallentata, a tratti sfocata, il digitale, il viso di Depp, lo sbirro texano, il dramma umano di Purvis/Bale e infine il sangue.
Public Enemies propone un’estetica nuova per veicolare il mito, un certo tipo di mito, quello controculturale, quello ribelle che non può archiviarsi in cantina. Da Jesse James a Dillinger il passo è breve, e c’è più western nel loro immaginario che in tante recenti produzioni posticce sulla frontiera. Anche Gomorra ha trattato il crimine gangsteriale attraverso la neutralizzazione del linguaggio epico. Che sia arrivato il momento di cambiare il cinema? Forse. Sicuramente per manterlo in vita il grande schermo non bisogna certo votarsi al 3D - se in futuro tutti ifilm saranno in 3D mi rinchiuderò nei miei “vecchi” film del ‘900 e mi dedicherò al teatro -, ma basterebbe riappropriarsi dei mezzi altamente tecnologici con cui oggi si sprezza l’arte cinematografica, purificarli attraverso l’autorialità e riutilizzarli in forza per rappresentare quella distorsione, quello sfasamento, quella “leggenda” fordiana che batte dieci a uno la verità, e che sa spiegarci molto meglio la vita. La “caverna” aristotelica non smetterà mai di insegnarci quanto quelle ombre sappiano parlarci molto di più di chi le proietta. Public Enemies come definitiva mitografia decostruttiva dell’America e del mondo occidentale tutto. Attraverso l’autoconsapevolezza di Dillinger come della sua nemesi Melvin Purvis circa l’epoca in cambiamento avvertiamo le stesse pulsioni che Sam Peckinpah aveva magistralmente evocato nell’elegiaca lotta tra il Kid e lo sceriffo Garrett nel 1972, a Fort Sumner. In Public Enemies non conta tanto la storia, la vicenda banditesca, gli amori e le vendette, la suspence o il climax finale, conta la forma, che sappiamo essere poi il contenuto. Public Enemies - a differenza appunto di Pat Garrett and Billy the Kid - non è elegiaco, o piuttosto nostalgico come l’operazione retorica di Mendes in Era Mio Padre, bensì è immersivo. Le tecnologie di ripresa ci portano nell’immagine. Non c’è distanza. La voce del regista-narratore è intradiegetica, e noi con lui. Il mito ribelle, colui che ci salverà dall’accozzaglia di fanatici dell’ordine conservatore di eredità vecchio-testamentaria, di repressi consumistici e guru della perfezione affaristica tutti rappresentati in pectore dal bolso Billy Crudup nei panni dello storicamente ingombrante Edgar Hoover capo dell’FBI. Questo mito ribelle dicevo deve ripassare attraverso la decostruzione linguistica del medium cinematografico e reinserirsi nell’immaginario attraverso i codici realisti intelleggibili nella modernità. Non tanto un postmoderno, nè un’ibridazione tra classico e moderno. Piuttosto un neorealismo mitografico dove i canoni della verosimiglianza s’accompagnano all’immutabile racconto mitico. Così Michael Mann chiude il suo film più metanarrativo e programmatico, manifesto di una nuova esegesi mitopoietica in cui rintracciare l’origine della nuova rielaborazione del racconto, del mito e della loro ricettività.
Nonostante il capolavoro che è, Public Enemies non può uguagliare il Dillinger di John Milius. Dillinger sarà sempre e soltanto Warren Oates. Mentre invece Johnny Depp non è Dillinger, ma Depp che ruba le banche e scappa da Melvin Purvis. E questa è comunque la sua grandezza non-stanislaschiana. L’unico punto debole del film resta quindi il cast. Si poteva fare molto di più. C’è chi lamenta la morte prematura di James Russo, ma come valutare l’inutile cameo di Channing Tatum nei panni di Pretty Boy Floyd? In Public Enemies si può dire ci sono solo Johnny Depp e Chrstian Bale. Il primo imitativo ed istrionico, il secondo completamente scomparso dietro la bellissima interpretazione che dà del noto G-Men morto poi suicida nel febbraio del 1960 - dicono che la sua voce è straordinaria, peccato che il doppiaggio italiano gli abbia appioppato la voce più sbagliata che si poteva. Depp è un personaggio introspettivo ma volutamente piatto: lui è il Mito. Bale inceve è progressivo, ambiguo, incarna la modernità. Per il resto c’è sì Stephen Dorff, ma quasi non lo si vede. Stesso discorso per Giovanni Ribisi. Bella e brava la Cotillard, ma le manca qualcosa. Premio Oscar per Stephen Lang come migliore non protagonista nei panni “leevancleefiani” dello sbirro texano corso in aiuto di Purvis. Glielo auguriamo.
Purtroppo Michael Mann non prende le misure del Dillinger del ’73 di John Milius, ma solo le distanze. Il risultato è questo capolavoro che proietterà il suo linguaggio sul mito a venire, ma che non può rivaleggiare - nessuno può più farlo - con la “grana grossa” dei film anni ’60-’70. Il Dillinger di Milius era così composto: Warren Oates, Ben Johnson - due del Mucchio Selvaggio e non è poco -, l’immenso Harry Dean Stanton - direttamente da Pat Garrett and Billy the Kid -, Geoffrey Lewis e Richard Dreyfuss. Resta immutato nel tempo, questo sì, da Il Mucchio Selvaggio a Dillinger, passando per Pat Garrett and Billy the Kid e tanti altri titoli controculturali, la sistematica lotta ed epica guerrilla contro la manipolazione del potere ai danni della povera gente. Billy Crudup/Hoover contro Jesse James, Bonnie e Clyde, il Kid, John Dillinger, il Bill “Big” Shelly di David Carradine di America 1929: Sterminateli Senza Pietà, il Bowie del fratello Keith in Gang e tanti altri nomi, compresi quelli di noi spettatori. Solo Eastwood poteva fare di meglio.

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