Regia di Courtney Hunt vedi scheda film
Un esordio alla regia, quello di Courtney Hunt, certamente dignitoso, ma non eccezionale. Insomma, per quanto mi riguarda, “Frozen River” è “normale amministrazione” e poco più. Certe “incertezze” strutturali che connotano uno “sguardo” un pò indeciso (incerto?) che non riesce a mettere a fuoco con esattezza tutto il materiale “incandescente” (più sul versante sociale che su quello privato però) di ciò che la sceneggiatura (a sua volta a mio avviso non proprio “esemplare”, anche se piena di spunti e di suggestioni interessanti) sembra voler suggerire (e che si annacqua in un finale un po’ troppo “natalizio” e “positivista” per ciò che riguarda una possibile ritrovata “onorabilità” per lo meno sul versante della coscienza) sgretolano a tratti la tensione, sorvolano, persino “semplificando” a volte, creano pause e “concessioni” a un buonismo un tantino ostentato che sembrano cozzare con la durezza di fondo e lasciano per questo (per lo meno a me è accaduto) molteplici, comprensibilissime perplessità. Bravissima a fotografare gli ambienti (spesso utilizzando campi lunghissimi che amplificano l’isolamento e aumentano la distanza “critica” dai fatti), la Hunt è più titubante e “conforme” quando concentra l’attenzione sui personaggi (qui si muove in effetti in forma un po’ più discontinua e manierata). Per questo forse è prima di tutto il “paesaggio” che resta impresso nella memoria (l’attenzione ai i volti, ai corpi che lo animano e interagiscono dentro lo scenario, è meno pregnante, non ha un equilibro adeguato in grado di “pareggiare” il rapporto, anche se è comunque accurata la rappresentazione dei caratteri). Si avverte in sostanza che il coinvolgimento è totale, l’aderenza profonda, ma al tempo stesso si riscontra (ed è nociva) la volontà di imbrigliare un poco proprio le emozioni probabilmente per cercare una maggiore incisività sul fronte “riflessivo” della visione, ma che finisce per fare un brutto servizio perché rende ogni cosa troppo “glacialmente” (tanto per rimanere in tema) lontana. E’ probabilmente la mancanza di esperienza che a tratti “tradisce” l’impegno programmatico, facendo emergere troppe slabbrature, marginali quanto si vuole, ma che in ogni caso non giovano certo alla compattezza dell’insieme. O forse ci si è voluti semplicemente muovere in troppe direzioni (la sceneggiatura indica molti sentieri percorribili) e a volte la mancanza proprio di una maturità stilistica finisce per far sembrare un po’ difettosa la necessaria “chiarezza estetica” dell’armonizzazione complessiva. Ci sono infatti molte (troppe) tematiche in gioco: le negligenze maschili, la solidarietà femminile, la “maternalità” delle donne, lo spigoloso rapporto con i figli (in particolare quello di una delle due protagoniste con il proprio primogenito), le derive disgregative di famiglie allo sbando e soprattutto il tema “centrale” dell’immigrazione clandestina sul quale non ci si sofferma “pietisticamente”, ma forse proprio per questo suo andamento un po’ asettico risulta ancor più toccante, tanto è intenso e penetrante il disagio che riesce a generare nello spettatore, così fortemente incisivo, da non lasciare assolutamente indifferenti. Gli ambienti (questa terra di nessuno al confine fra gli Stati Uniti d’America e il Canada) risultano terribilmente degradati, così lontani dal “sogno americano” da fare persino paura, perché non c’è davvero molto, laggiù, oltre la miseria, l’abbrutimento e l’isolamento solitario. Potremmo dire che non c’è scampo né speranza (e adesso credo che sarà anche peggio, visto come si stanno mettendo le cose) solo la voglia di salvare la pelle “ad ogni costo”. E il San Lorenzo, quel fiume di confine perennemente ghiacciato negli inverni polari della zona, sulle cui rive “sopravvivono” molte disperazioni allo sbando fra drugstore sgangherati, prefabbricati e roulotte di differente umanità e provenienza, benzinai che si barcamenano alla giornata, sale bingo tentatrici e infide, schermi televisivi incessantemente “operativi” per colmare i vuoti, riserve Mohawk un po’ ghettizzate che “tradiscono” analoghe insicurezze e necessità primarie ugualmente insoddisfatte, è indubbiamente il vero “cardine” della storia, la “strada ghiacciata” e percorribile che in inverno diventa più che un simbolo, il “trait d’union” che è al tempo stesso il tragitto illegale, improvvisato e pieno di insidie, che con piccoli escamotages “artigianali” consente, con il solito cinismo profittatorio che è tipico di coloro che gestiscono lucrando questo “commercio illegale” di sfruttati e di vite, di far “passare” impunemente immigrati irregolari alla impossibile ricerca del proprio riscatto. Su queste rive, vive e si danna insieme ai sui due figli, anche Ray Eddy, un’americana di mezza età che si trova in una più che disastrosa situazione di “bancarotta” familiare (non solo sentimentale, ma anche di carattere economico) dopo l’improvvisa fuga del marito – giocatore incallito e inveterato – con i soldi racimolati in mesi di sacrificio che dovevano servire a saldare la rata per definire l’acquisto della loro nuova abitazione. Questa “necessità” di trovare ad ogni costo il denaro necessario non solo perché il sogno e i sacrifici non siano vanificati, ma anche per garantire la quotidianità della sopravvivenza, creerà lo strano connubio quasi “societario” con un’altra donna di origine Mohawak (Lila) che vive di contrabbando e di immigrazione clandestina, a sua volta “grintosa” e disperata, determinata a raggiungere anche lei “costi quel che costi, il suo “obiettivo prefissato”. E saranno bravissime ad ingegnarsi, arriveranno vicino al “riscatto”, ma una fitta serie di imprevisti, proprio quando poteva sembrare ad entrambe di “avercela davvero fatta”, rimetterà il tutto in discussione proprio durante “quella” missione che doveva essere l’ultima, con esiti fortemente “empatici” (e positivi) per quanto riguarda le reazioni relazionali fra le due donne, ma anche un pò drammatici per le conseguenze “penali” che ne deriveranno almeno per una di loro (stemperati comunque in un “buonismo” altruistico di dubbia credibilità). Melissa Leo ha “la faccia giusta” che porta impressi i segni e il cipiglio doloroso di chi sa lottare: perfetta per il ruolo, è straordinaria e controllata, ma anche su questo versante è “semplicemente” un’ottima attrice che sfrutta al meglio le possibilità offertele da questa figura a tutto tondo di protagonista sia pure in condominio, che, conscia dell’occasione forse irripetibile, sa sfruttare al meglio la dura fissità “di ghiaccio” del suo essere caparbia, e coglie magnificamente al volo l’occasione che una volta tanto la eleva al di sopra di una ormai duratura e un po’ consunta carriera di onesta “figurante” spesso non di primissimo piano. Tutti credibilmente a posto il nutrito stuolo di contorno che ha il giusto peso “anonimo” della plausibilità.
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