Regia di Fritz Lang vedi scheda film
Fischiettando inquietamente per le nebulose strade di una Germania cupa ed oscura, M scombussola le coscienze e manda in crisi sia i giustizialisti che i garantisti. È molto più di un profondo thriller dell’anima, questo importante (su molti registri) film di un Fritz Lang alle prese con il sonoro. La cosa sconcertante (e più inquietante) di M è la sua costante attualità. A livello sociologico non si può non notare la terribile trasmigrazione del contenuto narrativo nei cruenti giorni nostri. Forse la violenza ha avuto un’origine, forse è tutto riconducibile all’insania mentale, forse c’è stato un punto di rottura tra la normalità del quotidiano e la crudeltà dell’anormale. M è una storia di ogni tempo, in ogni epoca si può trovare il maniaco truculento di turno che colpisce la vittima sacrificale con cui appagare la propria folle disumanità. A livello stilistico, d’altro canto, c’è un mirabile cambio di registro che Lang utilizza nella scansione narrativa del film: ad una lunga prima parte che può valere tanto quanto un trattato di psicologia criminale, un noir poliziesco incentrato più sul “chi” che sul “perché”, risponde un lento e fulminante epilogo di natura politicamente notevole. Al dramma sociale sugli sforzi dell’autorità costituita nell’impedire che altro sangue scorra ancora (come impedisca ciò è discutibile, visti i metodi), ecco che esplode con teatrale veemenza il dramma politica: parallelamente a L’angelo azzurro, descrive il declino di una nazione schiacciata dall’imperante nazismo che avanza a poco a poco manipolando le menti del popolo.
Anche in M c’è un simile risvolto. Che raggiunge l’apice nella memorabile sequenza del processo messo su dai criminali che hanno trovato il mostro (quando ci stanno di mezzo i bambini si muovono anche i peggiori malviventi): proprio la rappresentazione del mostro affascina per potenza e crepuscolare annichilamento. E sta qui il messaggio (senza risposta) del film: chi può considerare mostro un uomo che ha sicuramente sbagliato, ma perché gestito dal morbo subdolo della malattia (“Quando cammino per le strade ho sempre la sensazione che qualcuno mi stia seguendo. Ma sono invece io che inseguo me stesso”: immenso Peter Lorre)? Chi può permettersi di giudicare il prossimo, con l’antipatica prepotenza di affermare la propria superiorità sul carnefice? Chi può difendere le vittime e chi può sostituirsi alle istanze di essi? Il male può sconvolgere ogni persona, nessuno ne è immune, nessuno è innocente. E per questo che nessuno può condannare un altro abusando della giustizia. Non dà risposte precise, ma crea riflessioni, dubbi, considerazioni non banali.
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