Regia di Fritz Lang vedi scheda film
Nel meraviglioso libro di interviste di Peter Bodganovich Chi ha fatto quel film? (da poco rieditato con il più fedele titolo Chi diavolo ha fatto quel film? Coerentemente con la frase di Howard Hawks a cui si ispira), Fritz Lang figura tra i grandi registi intervistati dal giovane Bodganovich con cui riperocorre la sua carriera cinematografica. Inutile dire che M-Il mostro di Dusseldorf rappresenti una pietra miliare per il regista e per il cinema in generale. Mi ha fatto riflettere però un elemento che lo stesso Lang valorizza del film e che spesso non viene considerato: l’assoluta modernità di una trama quasi documentaristica che, scardinando ogni regola cinematografica di allora, sviluppa una vicenda tutta incentrata sulla caccia all’uomo e sulle conseguenze nella città, sia per poliziotti che per la criminalità organizzata, senza digressioni sui vari personaggi. Come Lang ebbe modo di far notare nell’intervista, una volta arrivato negli USA, stuzzicò un produttore proprio dicendogli in sostanza se lo avrebbe finanziato per la realizzazione di un film senza love story ed incentrato totalmente su uno degli argomenti più scabrosi, ancora oggi difficili da trattare, ossia quello di un maniaco che adesca ed uccide delle bambine. Questa totale modernità e lo scardinamento verso le regole del genere sono solo parte dei meriti di un film davvero eccezionale. A pensarci Lang non crea nemmeno un protagonista “positivo” nella vicenda, quando quasi tutti i film connessi ad un’investigazione necessariamente propongono un detective con cui il pubblico possa identificarsi. Al contrario vi è un’attenzione quasi scientifica agli strumenti della polizia, alle ricostruzioni delle vicende ed alle difficoltà che ne scaturiscono (le contraddizioni tra testimoni oculari). Oltre ad un film di indagine dal ritmo impeccabile ecco che Lang mette a disposizione un talento straordinario con una fotografia che amplifica il senso di inquietudine in cui vive la città ed i personaggi che la popolano, basti pensare alle inquadrature delle stanze vuote mentre udiamo la voce della madre della piccola Elsie ed un pallone che vola via come significato simbolico della sua vita spezzata. Allo stesso tempo è eccezionale l’introduzione del mostro, oltre ad essere accompagnato dal motivo de “Nell’antro del re della Montagna” , lo vediamo per la prima volta allo specchio mentre fa delle smorfie inquietanti. A proposito del protagonista Peter Lorre, in un ruolo tale che avrebbe potuto segnarne definitivamente la carriera, riesce con le sue movenze goffe e quasi infantili, ma che racchiudono una tragedia di un mostro che, per la prima volta forse nella storia del cinema non è solo carnefice, al contrario è vittima della propria mente e spiega l’ossessione incontrollabile che attanaglia i suoi comportamenti. Peraltro, con un ulteriore colpo da maestro il regista mostra l’assassino processato non in un tribunale della città, ma da una corte fatta di altrettanti delinquenti che vedevano le loro attività danneggiate dalle continue incursioni della polizia (qualcuno vi ha visto delle similitudini con l’arringa di Grengoire alla Corte dei Miracoli di Notre Dame de Paris).
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