Regia di Stephen Frears vedi scheda film
Che gioia quando in un unico film coincidono al loro meglio tutti i possibili fattori positivi. Una regìa inappuntabile (Stephen Frears). Una sceneggiatura ottima e dei dialoghi stre-pi-to-si (Cristopher Hampton). Delle interpreti superbe (Michelle Pfeiffer e Kathy Bates). Una colonna sonora perfetta (Alexandre Desplat). Reduce da una lunga infilata di film bruttini e bruttissimi, avevo un disperato bisogno di riconciliarmi con il cinema e, ieri sera, dirigendomi verso la sala e sapendo più o meno cosa avrei visto, già pregustavo una clamorosa rivincita nel mio personale match contro il brutto cinema. E, senza alcuna vergogna, confesso che sono rimasto in sala per una ulteriore seconda visione, tanto questo film mi aveva comunicato quelle che un tempo (ma qualcuno ancor oggi lo fa) venivano definite "vibrazioni positive". Il film ha inizio con una voce fuori campo che mette a fuoco lo sfondo principale della pellicola (la Belle Epoque e le sue scaltre cortigiane) e passa velocemente in rassegna (con il supporto di una simpatica grafica) le più famose fra queste "signore" (in realtà donnine piuttosto disinvolte nel procurarsi denaro sfruttando compagni più o meno occasionali ma sempre ricchi e potenti), collocando al top di questo elenco la "madame" più bella e invidiata da tutte, Lèa de Lonval. Prima di entrare nel vivo, devo fare una precisazione. Io non vado molto d'accordo col cinema cossiddetto "in costume", quello che contempla corpetti, velette, pizzi, merletti, cagnolini, nobildonne, contesse, marchese etc. Per dire: non sono un fan del cinema di James Ivory e mi faccio vanto di avere evitato con cura il recente "La duchessa" con Keira Kinightley. Ma stavolta (come già fu per "Le relazioni pericolose", guarda caso diretto dallo stesso Frears) era chiaro che le cose sarebbero andate molto diversamente. A partire da quell'immagine favolosa che campeggia sul cartellone principale del film, in cui appare una Michelle Pfeiffer da brividi, tanto è sontuosamente e definitivamente BELLA e che, da quel manifesto, pare rivolgersi a me, proprio a me, come se mi stesse dicendo "Ciao, dài, vieni a vedermi in questo film, dài che ti divertirai, stupidone!". E come si fa a dire di no all'invito di un angelo? Impossibile. Perchè poi la Pfeiffer interpreta qui un ruolo per il quale, suppongo, Frears abbia pensato solo a lei e a nessun altra, tanto le calza alla perfezione. Infatti, proprio come Michelle, la bella Lèa è una signora di mezza età che deve fare i conti col tempo che passa e con la terza età in arrivo, e con tutti gli scompensi psicofisici che ne derivano e che cominciano a profilarsi all'orizzonte. Michelle, come persona che fa l'attrice, ha affrontato il problema con buon senso e saggezza, dedicando meno tempo al lavoro, selezionando con cura i film che le vengono proposti e comunque assistiamo ad una rarefazione dei suoi impegni professionali, se è vero che prima di ricomparire con "Stardust" e "Hairspray" si era presa una lunghissima pausa per dedicarsi a crescere i suoi due figli. Potendo dunque contare su una bellezza che (per ora) non pare conoscere decadimenti, la signora Pfeiffer ha rinviato a data da destinarsi il suo personale rendez-vous con l'incalzare dell'età e del tempo. Nel ruolo di Lèa, invece, il discorso si fa più problematico, in quanto il suo personaggio trae la linfa della propria illusione di "giovinezza prolungata" vampirizzando la freschezza e l'inquietudine ormonale del suo giovane amante Chery. Costui ha però un problema: è estremamente infantile, immaturo, volubile, lunatico. In pratica i due sono complementari ed hanno un insopprimibile bisogno l'uno dell'altra. Lui vede in lei un assoluto punto di riferimento e, nella sua acerba incoscienza, pretenderebbe che lei restasse sempre seduta lì, ad aspettarlo, magari anche quando lui si sposa con una poco più che adolescente in un matrimonio combinato che gli è stato, sì, imposto ma al quale lui non ha saputo (o voluto) sottrarsi. Lèa ne soffrirà moltissimo (pur trattenendo dentro di sè il suo dolore), ma farà buon viso a cattivo gioco, reiterando finchè sarà possibile le schermaglie clandestine di passione con Chery. Già, perchè Lèa, di fronte all'ennesimo episodio che conferma la tendenza alla sregolatezza e all'instabilità psicologica del ragazzo, non ce la fa più a fargli da amante e da mamma e mette la parola fine, pur essendo devastata da questa scelta; scelta che comunque, intimamente, lei spera non sia irreversibile. Oltre a perdere l'oggetto della propria passione, Lèa vede allontanarsi l'unica fonte che ancora poteva frapporsi tra lei e la vecchiaia tanto temuta e sempre incombente. C'è poi un terzo personaggio, la madre di Chery, che la sceneggiatura ha saggiamente tenuto leggermente in secondo piano, senza caratterizzarla con toni eccessivi, ma attribuendole comunque una inequivocabile connotazione di donna apparentemente sventata e svanita ma in realtà furbissima ed opportunista. Nei panni di questa signora troviamo una irresistibile Kathy Bates. Ecco, sulla Bates, potremmo dire che, all'apice di una lunga carriera, pareva non trovare più i ruoli giusti (infatti negli ultimi anni aveva piuttosto deluso con scelte artistiche discutibili). Ma qui dà vita ad un personaggio fatto apposta per conquistare la simpatia del pubblico, e dunque pare ritornata quella dei suoi tempi migliori. Rupert Friend è perfetto in questo ruolo di giovane amante, impulsivo, ombroso, insofferente, mai pacificato, e per niente incline alla razionalità. Ma è ancora la Pfeiffer a bussare di nuovo alla porta dei miei pensieri. L'ammirazione nei suoi confronti non mi impedisce tuttavia di rilevare come non tutto il suo curriculum sia allo stesso livello, composto da pellicole indimenticabili ma anche da alcune irrilevanti. Quel che è certo è la sua versatilità, testimoniata da una gamma di personaggi interpretati davvero assortiti. E poi, fuori da ogni chiacchiera, resta il fatto inconfutabile che Michelle, a dispetto dell'età, resta una delle donne più belle ed affascinanti del pianeta. Quando è inquadrata in primo piano, il suo sguardo emana una luminosità che pare rischiarare l'intera platea (a proposito dei suoi bellissimi occhi, ci son rimasto male quando ho saputo che ad uno dei due è quasi del tutto cieca per via di un incidente che le capitò da piccola). Poche parole servono per omaggiare Stephen Frears, uno dei cineasti più intelligenti, eleganti e sensibili di tutta la storia del Cinema, e i cui ultimi film sono uno più bello dell'altro (e quando dico "ultimi" intendo da "Alta fedeltà" in poi). E a questo punto desidero fare una segnalazione piccolissima su una presenza -infatti ridottissima- nel film, di cui nessuno ha detto una parola. Io stesso me ne sono accorto per puro caso, concentrando la mia attenzione sui titoli di testa, dove ho colto un nome che, nello spazio di un secondo, mi ha evocato un'intera epoca, quella della "Swingin' London" dei favolosi Sixties, di cui fu protagonista assieme alla sua amica Marianne Faithfull: sto parlando di Anita Pallenberg, che salì alla notorietà delle cronache come fidanzata "storica" di Brian Jones, che poi abbandonò per legarsi a Keith Richard. Della Pallenberg si disse che fosse la musa ispiratrice di qualche brano dei Rolling Stones. Di lei ricordo solo la bellezza aggressiva e la sua famigliarità (all'epoca un clichè condiviso da molti artisti) con ogni tipo di droga. Concludendo. (Forse) non è Grande Cinema. Ma è (sicuramente) Buon Cinema.
Voto: 10
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