Regia di Theo Anghelopoulos vedi scheda film
Si può essere profughi del passato, di un mondo diviso e crudele che non esiste più. E si può scoprire, allora, con amarezza, che la memoria delle proprie fughe, del proprio esilio, dei viaggi disperati e interminabili per ritornare a casa, o rivedere le persone abbandonate tanti anni prima, non serve a riconciliare i giovani di oggi con la vita. L’esempio della tenacia eroica, che attraversa gli oceani e i continenti per ricongiungersi ad un amore perduto, nulla può contro l’incomunicabilità, l’indifferenza, l’egoismo che disgrega le famiglie. Le guerre e le persecuzioni che hanno insanguinato l’Europa del secolo scorso, hanno separato i mariti dalle mogli, i genitori dai figli, eppure la lontananza non ha impedito loro di continuare a dialogare, a desiderarsi, e a volersi bene. Ai giorni nostri, in tempo di pace e di benessere, gli individui riescono, per contro, a sentirsi irrimediabilmente distanti quando sono uno accanto all’altro, sotto lo stesso tetto, dove possono toccarsi e guardarsi negli occhi. Il protagonista ed Helga hanno divorziato, la loro figlia adolescente è depressa ed introversa, e spesso fugge via da casa. I vecchi Eleni e Spyros sono invece, come nel precedente La sorgente del fiume, gli amanti divisi che sfidano il tempo e lo spazio per ritornare insieme. E, ancora una volta, Angelopoulos vuole che il loro sentimento rimanga totalmente terreno, perché il sospetto di santità non lo trasformi in un modello irraggiungibile: per questo motivo invia di nuovo un terzo incomodo a insidiarlo, a relativizzarlo, a metterne in dubbio il carattere assoluto e inevitabile. Jacob, l’ebreo tedesco con cui Eleni condivide la prigionia in un gulag siberiano, è, per lei, il compagno di sventura, l’amico nel pericolo, il confidente nell’emergenza, il sostegno morale nelle condizioni estreme; e contemporaneamente, l’incarnazione di un senso di appartenenza radicato nel cuore, nel sangue, nella terra, in quell’Israele che è insieme patria, chiesa, famiglia: un attaccamento congenito all’origine del proprio essere, tanto diverso dalle sue posizioni ideologiche, maturate a posteriori, che la rendono ovunque straniera, clandestina e sola. Jacob rappresenta un modo alternativo di sperare, di inseguire un sogno, che non punta verso un luminoso avvenire, bensì è rivolto all’indietro, a un punto di riferimento situato in un remoto passato, da cui traggono origine le certezze della Storia. Eleni, invece, è colei che disegna autonomamente i propri ideali, secondo le convinzioni e gli impulsi individuali, che indirizzano verso quel particolare schieramento, e quel particolare uomo. È lo spirito della modernità che infrange le regole della tradizione, eppure è destinato anch’esso a diventare antiquato, quando la caduta delle barriere rende l’orizzonte più sgombro, ma anche più indistinto e confuso. Nel momento in cui al di qua e al di là si uniscono, e vengono meno le ragioni di lottare, e anche solo di scegliere, i valori si trasformano in anacronistici cimeli, buoni da raccogliere, e magari documentare in un’opera cinematografica. In questo film Angelopoulos riflette sul suo cinema, sull’attualità della testimonianza dei dolori appartenenti ad epoche ormai tramontate, in cui era facile perdersi, imboccare la strada dell’errore e del male, ma perlomeno se ne capivano il come e il perché. Al giorno d’oggi, persino la rivoluzione e l’utopia hanno smarrito il proprio significato, riducendosi a brancolare nel buio di una sinistra fantasia priva di sbocchi. Così, apparentemente, non c’è più posto per chi, un tempo, ha davvero creduto in qualcosa; non c’è luogo che lo possa degnamente ospitare, se non la trascendenza in cui nulla ha più fine.
In questo film le rigorose geometrie di Angelopoulos si aprono, fino a dissolversi, intorno al disorientamento di un universo umano in cui tutto, a cominciare dall’Arte, è urlato a gran voce, eppure non riesce a farsi sentire. Non c’è più il vuoto a fare da cassa di risonanza ai sussurri, e il deserto a fare da culla ai pensieri solitari. La Berlino del festival internazionale del cinema, del muro abbattuto dalla folla festante, eppure tenuta in ostaggio dal degrado metropolitano e dalle minacce terroristiche, è il calderone in cui gli opposti si attraggono in una danza infernale, e niente sembra più reale. La polvere del tempo è l’ultimo rifugio della verità: una fugace copertura per i pochi ricordi superstiti, che una folata di vento solleva ed, in un soffio, spazza via per sempre.
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