Regia di Michele Placido vedi scheda film
C’è qualcosa che non va. Ti scorrono di fronte immagini scontate. Quello che ti aspetti, quello che ci si aspetta tranquillamente da un film del genere. Il grande sogno ha un tema che vale un libro di storia e scotta ancor’oggi, a distanza di quarant’anni. È proprio vero che il sessantotto non è mai finito, come ha detto Michele Placido a Venezia. Sì, è vero, il sessantotto non è mai finito. E sarà pure questo il motivo per cui è stato il film che maggiormente ha scatenato gli animi al Festival. Certo, di fronte ai ricordi rivoluzionari di Carlo Rossella o ridi da beota o lo mandi all’altro paese senza pensarci troppo. Forse il problema è un altro. Forse non siamo ancora pronti per un vero film su quel periodo. Siamo ancora troppo ancorati a posizioni particolari, incapaci di intraprendere un discorso universale che parli di quella stagione con oggettività, lucidità, realismo.
A conti fatti, Il grande sogno, sin dal titolo, è uno sfizio di Michele Placido. C’è la giovinezza – in grandissima parte autobiografica, ma più credibilmente riconducibile in qualche modo ad un autoritratto che guarda al passato – con i tormenti, le passioni, le paure, le gioie, i dolori del giovin Placido, la cui anima è trasmigrata in Riccardo Scamarcio, poliziotto con la vocazione artistica ancora acerba. Già dal titolo si capisce la presunta analisi del film: il sessantotto resta un grande sogno in quanto tale, e per questo è meglio relegarlo alla dimensione onirica del miraggio generazionale. Il guaio del film è che tutto è ascrivibile a quella sfera emozionale che v’è tra il sogno e la realtà, con uno sbilanciamento ben elevato verso il sogno. Lo si capisce perfettamente da tre fattori: le dissolvenze imperanti, la musica ridondante, la sceneggiatura difettosa. Andiamo con ordine.
Ciò che Placido sbaglia in quello che dovrebbe essere il film della sua vita è il tono di regia, che poi è anche uno sbaglio autoriale e stilistico: schematico e immerso in modo discutibile nell’atmosfera artificiale del film, Placido mette a segno alcune sequenze suggestive ed irritanti al contempo (i ragazzi che pedalano sul terrazzo in circolo, scena che ritornerà nel finale sommerso dalle imperanti dissolvenze; lo scontro di Valle Giulia; l’alternanza tra scopate e lotte politiche), creando un’aurea da romanzo (rosa) popolare (per niente disprezzabile, anzi) che non c’azzecca nulla con il reale intento del film. Assistito, tra l’altro, da un montaggio convulso e talora kitsch, il buon Placido cambia direzione di rotta rispetto a quello che a tutt’oggi resta il suo capolavoro, ossia quel Romanzo criminale così bello, vero, crudele, e per molti versi sbaglia. Perché Il grande sogno è un film buonista che consola tutti in nome di non-si-sa-bene-cosa, quasi a voler fare intendere che, in fondo, erano solo ragazzi.
Manca proprio questo nel film di Placido (sceneggiato, malissimo, assieme e Dorianna Leondeff e Angelo Pasquini – quasi una costola o una brutta copia de La meglio gioventù): manca uno straccio di analisi credibile. Da un film probabilmente non si può pretendere nessuna sorte di analisi. Appartiene all’arte, l’arte non si spiega e forse non deve neppure spiegare. Ma un film con ambizioni di affresco storico deve porsi questi problemi. Non si può risolvere tutto in un racconto d’amore e politica, d’amicizia e di famiglia in cui il sessantotto significa solo botte e sangue, discorsi retorici di piccoli leader che finiscono latitanti in Francia, occupazione e liberazione sessuale, ‘uccidere il padre’ ed indipendenza. Il sessantotto è stato anche altro, è stato tanto altro. E se siamo sicuri che gli autori ne siano consapevoli, non siamo così sicuri che il messaggio venga trasmesso con efficacia.
È un film prevedibile in cui la contestualizzazione storico-politico-civile è superficiale. Per di più i personaggi sono qua e là stereotipati e tagliati con l’accetta: Scamarcio rappresenta il Sud buono, esponente di quei poliziotti decantati da Pasolini, con un sogno bello come quello della recitazione e tutte le armi per conquistare una donna – insomma un eroe buono; Jasmine Trinca è una fragile borghese stronza che sta nell’Azione Cattolica e intanto scopa a destra e a manca; Luca Argentero è il classico leader studentesco con carisma, fascino e spregiudicatezza, figlio di operai, ma che in realtà aspira ad essere padrone; Massimo Popolizio è il padre da uccidere, forse l’ultimo arnese buono della generazione precedente; Laura Morante è una teatrante stronza (ma sono tutte stronze le donne del Grande sogno? No, si salva la madre Alessandra Acciai, che ispira grande pietas) che fuma, beve e scopa a volontà; Silvio Orlando è un capitano romantico che recita pezzi teatrali; ci sono poi due cammei molto carini di Tatti Sanguineti e Gigi Angelillo che recitano due professori tromboni.
Insomma, a conti fatti Il grande sogno è il politicamente corretto album di famiglia di un regista appassionato e viscerale che sembra aver perduto rabbia ed orgoglio alle prese con una materia così incandescente. È un po’ un problema del cinema di sinistra (perché Il grande sogno è puro cinema di sinistra, con tutte quelle bandiere rosse di bertolucciana memoria): è un amarcord compiaciuto e nostalgico, indicativo e lezioso. Il vero film italiano sul sessantotto e su quel che ha implicato deve ancora venire. Per ora, a Placido l’onore delle armi e la constatazione del mezzo fallimento.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta