Regia di Michele Placido vedi scheda film
Roma, dalla morte di Ernesto Che Guevara nell'autunno del 1967 alla primavera di due anni dopo, passando per la cruciale stagione sessantottina, attraverso le vicende di tre personaggi: Nicola (Riccardo Scamarcio), giovane poliziotto pugliese con la passione per il teatro che viene infiltrato tra gli studenti dell'università, Libero (Luca Argentero), uno dei leader del movimento e Laura (Jasmine Trinca), studentessa dalla coscienza politica in "formazione" che sogna un mondo libero da ogni iniquità sociale. Le loro strade si incrociano e si scontrano mentre la società in cui vivono va lentamente in pezzi, annichilita dalla furibonda esigenza giovanile di polverizzare ingiustizie e soprusi: sullo sfondo, l'occupazione dell'università "La sapienza" ("Noi non siamo qua per chiedere concessioni al governo, noi siamo qua per mettere in discussione la società e il sistema capitalistico nel suo insieme"), i tafferugli tra studenti e polizia, le incomprensioni tra genitori e figli, relegate, però, a banali litigi generazionali ("Che sta succedendo?", chiede la madre di Laura a sua figlia: "Secondo te che sta succedendo?". "Io vorrei sapere chi frequenti, chi sono i tuoi amici. Non ti riconosco più". "Forse è meglio così". "Stai rovinando la tua vita e la nostra, al futuro non ci pensi?". "Sì che ci penso al futuro, ma non è quello che avete deciso voi"), la scoperta dell'amore e della libertà sessuale, le immagini di repertorio della guerra in Vietnam o di Martin Luther King che pronuncia il suo storico "I have a dream" (il 1968 fu l'anno della sua morte), le lotte sindacali dei braccianti siciliani, i picchetti agli ingressi delle fabbriche, il teatro (Il conte di Carmagnola, Brecht, Cechov) e il cinema (da I pugni in tasca di Bellocchio a Les parapluies de Cherbourg di Jacques Demy e Divorzio all'italiana di Germi). Pauroso passo indietro del Michele Placido regista dopo i fasti di Romanzo criminale, qui alle prese con la trasposizione cinematografica delle sue esperienze giovanili durante gli anni della contestazione (si trasferisce dalla Puglia a Roma nel 1966, entra, senza molta convinzione, in polizia giusto il tempo per partecipare agli scontri di Valle Giulia e poi intraprende la carriera d'attore iscrivendosi all'Accademia d'Arte drammatica) piuttosto che con l'affresco o i tasselli di un variopinto mosaico: furbo, manieristico, in definitiva innocuo (palesemente artefatte, quindi, anche le polemiche che ne accompagnarono l'uscita), Il grande sogno elegge, infatti, il luogo comune a cifra stilistica dominante della rilettura storico-sociologica, fallendo clamorosamente le intenzioni di partenza. "L'ambizione del film", dichiara Placido, "è di essere una commedia corale su un periodo tumultuoso e sbandato, anche divertente, pieno di musica e citazioni cinematografiche. Per dire come eravamo, che cosa pensavamo, perchè ci ribellavamo. Senza dimenticare che l'entusiasmo generale e libertario sfociò, per molti, nella pratica cupa del terrorismo". Ed è proprio l'intera cornice che avvolge e muove le vicende dei personaggi (e non la matrice autobiografica che ne governa le evoluzioni drammaturgiche) a non funzionare: "come erano", "che cosa pensavano" e "perchè si ribellavano" i giovani sessantottini sono motivazioni che restano, purtroppo, sempre sullo sfondo, senza tentativi di analisi che ne scrutino la complessità di sfumature. Il versante più intimo e personale della vicenda narrata, infatti, pur con frequenti cadute nella retorica o nello stereotipo, si rivela molto più efficace ed incisivo della prevedibile e dispersiva illustrazione delle tensioni dell'epoca, affidata ad immagini leziose, politicamente corrette e senza profondità di sguardo, immerse in una messinscena che, nonostante alcune pagine suggestive, stempera freschezza e vitalità smarrendosi nelle ingenuità dei compiacimenti stilistici (tripudi di dissolvenze e ralenti, inserti, "falsi", in bianco e nero da accostare a quelli di repertorio, intersezioni tra cinema e realtà, colonna sonora invadente, simbolismi scontati come i ragazzi in bicicletta sul tetto dell'università). E nessun pregevole contributo, poi, giunge al film dall'interpretazione del cast di stelle e stelline: se si esclude uno straordinario Massimo Popolizio (il Terribile di Romanzo criminale, qui nei panni del padre di Jasmine Trinca), infatti, da un Riccardo Scamarcio poco convinto (e la sceneggiatura non l'aiuta certamente, visto che gli affida battute come "Per fare l'attore non basta avere una bella faccia") ai monocordi Luca Argentero e Jasmine Trinca, fino alle brevi (e sprecate) apparizioni di Laura Morante e Silvio Orlando, è una sequela di battute ridondanti, smorfie ed isterismi da fiction televisiva che finiscono per impoverire ulteriormente ogni tentativo di risollevare il film dalla sua apatica deriva qualunquistica. Ecco, volendo infierire col bisturi, il problema di Il grande sogno è proprio questo: esclusa qualche frecciata contro gli abusi a colpi di manganello delle forze dell'ordine, infatti, il film non graffia, non spiega, non scuote le coscienze, non scatena l'indignazione contro le ingiustizie, non coglie il fermento dell'epoca, la voglia di conoscere, di crescere, di comprendere, di opporsi ad ogni sopruso. "La rivoluzione... Bella parola, grande sogno... Ma poi ci si risveglia". Appunto...
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