Regia di Lee Daniels vedi scheda film
Il merito del regista Lee Daniels è quello di aver maneggiato con la leggerezza della risata e un tocco di surrealismo, il lato oscuro dell’America incanalato in una commedia grottesca, che funziona meglio di un documentario. Anche se diversi, siamo soprattutto preziosi. Uno slogan che, in tempi di crisi sociale, politica ed economica come quella che stiamo attraversando, converrebbe tenere bene a mente. (Giacomo Visco Comandino, Il Riformista, 16 maggio 2009)
E’ quasi un pugno nello stomaco questo film di Lee Daniels che nonostante gli orrori che racconta, riesce a non essere mai ricattatorio: un’opera particolarmente coraggiosa, che traduce magnificamente in immagini la lingua ingenua e sgrammaticata da diario di una illetterata, il groviglio prosastico delle parole, la scrittura grezza e sincopata presente nelle pagine del romanzo di Ramona Lofton (in arte Sapphire) da cui è tratto il film (Push, stampato in Italia da Fandango con il titolo Precious) che dà forma in soggettiva ai pensieri della protagonista (“Io… io dentro di me sono così bella, come una ragazza della pubblicità di uno spot e arriva da me uno in macchina, uno che li somiglia al figlio di quel signore là che hanno ammazzato tanto tempo fa quando era presidente o a Tom Cruise – o unaltro come questi che si ferma colla macchina e io salto su come alla tele… […]) ed è stato generato, come ispirazione, proprio dalla diretta esperienza di insegnante nelle scuole di alfabetizzazione di Harlem e del Bronx dell’autrice.
Lee Daniels ci propone dunque un tema molto forte, una vicenda talmente dura e cruda, che tratta di incesto e di abusi perpetrati dentro le mura domestiche, che potrebbe sembrare a prima vista quasi una rappresentazione volutamente “caricata” di una situazione al limite, ma che la percezione emozionale ci fa però immediatamente (e giustamente) percepire come assolutamente veritiera, e come tale, ancor più destabilizzante. Nonostante l’asprezza della storia, il regista riesce comunque a mantenere una sorprendente leggerezza di linguaggio (il che non intacca minimamente la profondità dell’analisi sociologica di fondo) grazie al sapiente dosaggio del registro della realtà con quello delle emozioni (due piani che risultano sempre perfettamente bilanciati fra loro), e all’utilizzo di uno stile narrativo asciutto, ma al tempo stesso pietosamente ironico e molto partecipato, che coinvolge profondamente lo spettatore e lo aiuta a tollerare le infinite nefandezze che la vicenda pone in assoluto primo piano. Il realismo è infatti molto marcato, ma con frequenti e salutari pause di sospensione che lasciano spazio alle colorate digressioni nella fantasia a cui si abbandona la protagonista proprio nei suoi momenti di più desolato sfacelo (Lietta Tornabuoni su La Stampa ha scritto che il regista ha organizzato un percorso narrativo di sventure e tragedie di ogni tipo come se si trattasse di un lacrimoso romanzo popolare d’appendice dell’Ottocento che potrebbe sembrare esagerato ed estremo, e persino un po’ ridicolo alla sensibilità dei benpensanti spettatori della borghesia bianca, se non ci fosse a sorreggerlo la grande qualità che il film ha e che nobilita ogni cosa, di testimoniare un amore inusitato per la vita, e che alla fine suggerisce anche una credibilissima ipotesi di affrancamento dalle avversità esistenziali attraverso una progressiva acquisizione di autocoscienza e di recuperata autonomia).
Straordinario il lavoro fatto sulle inquadrature che possono a volte sembrare addirittura casuali all’apparenza, spesso tanto veloci da risultare folgoranti nella loro immediatezza, ma in altri momenti invece molto più lente, persino un po’ “indugianti”, che si alternano a zoommate brevi ed improvvise su un volto o su un particolare, con una cura formale della confezione molto preziosa che gioca sui contrasti, sulla luce e sui colori (interessante l’analisi fatta al riguardo da Giampiero Frasca su Cineforum che fornisce una inedita e personalissima chiave di lettura della pellicola partendo proprio da questa prospettiva) e si estrinseca in una stilizzazione delle immagini che diventa il segno distintivo con cui il regista esprime - senza mai pigiare il pedale sull’effetto - la sua personale visione di una realtà quotidiana fatta di soprusi e molestie, di un accumulo infinito di sventure e di una totale mancanza di prospettive certe.
Si chiama Claireece Precious Jones la protagonista di questo film appassionante e appassionato, (anche se lei preferisce identificarsi solo con “Precious”, come dichiarerà poi presentandosi alla classe della nuova scuola a cui è stata desinata). E il suo nome diventa allora quasi un controsenso, o addirittura un paradosso, perché di prezioso la sua vita non ha davvero nulla (ma assume invece ai suoi occhi un valore fondamentale e irrinunciabile, quel nome, come se contenesse in nuce la speranza che lei nutre ben radicata nel profondo e che non intende abbandonare, che è poi quella di poter diventare alla fine davvero “preziosa” per qualcuno).
Precious ha 16 anni e vive ad Harlem. Obesa e semianalfabeta, è stata abusata sessualmente dal padre fin dalla prima infanzia: da suo padre ha avuto una bambina mongoloide, ed è ancora di lui che è nuovamente incinta. Sottoposta da una madre narcisistica e depressa a umiliazioni e violenze fisiche e psicologiche di ogni tipo, è solo un corpo da usare a piacimento (anche se in differenti modi) per entrambi i genitori: lei non “esiste” come persona, è semplicemente una “proprietà privata” da vessare e da sfruttare.
La necessità di fronteggiare l’angosciosa oppressione di un ambiente familiare brutale e totalmente anaffettivo, dominato dall’ignoranza e dall’assenza di orizzonti culturali come quello in cui è costretta a vivere, ha stimolato però “dentro” la ragazza la necessità di crearsi un mondo immaginario e alternativo dove la frustrazione si muta in gratificazione e il ripugnante diventa quasi una remunerazione. Ed è in quel luogo mentale fortemente idealizzato, artificiale e magico, che lei si rifugia spesso, perché lì – al contrario della sua squallida vita del reale che la costringe a sopportare soprusi e impulsi emozionali insostenibili – soggiornano soltanto sensazioni positive in una specie di colorato “musical” che l’affranca dalle brutture, sufficiente a ripararla (e ripagarla) dalle umiliazioni che subisce.
La ragazza si trascina così totalmente inerte come una zavorra (“liberata” solo nella fantasia), oppressa anche fisicamente dal peso del suo enorme, sformato corpo che rende ancor più emarginata la sua condizione. E non la aiutano certo i servizi sociali, ai quali lei e la madre presentano una pietosa finzione di normalità che non esiste, e neanche la scuola, che addirittura la espelle quando si scopre la sua seconda gravidanza, per relegarla in un istituto destinato ai ragazzi con problemi sociali dove, grazie soprattutto all’aiuto di un’insegnante avveduta, comincerà la sua lenta risalita dall’abisso, imparando a leggere e scrivere e riacquistando così il senso della propria dignità.
Non c’è lieto fine però per Precious: solo un incerto futuro, illuminato da un barlume di riconquistata coscienza del proprio essere ‘preziosa’ per se stessa e per i suoi figli, perché anche in quella differente prospettiva – sicuramente più propositiva – la terribile eredità che suo padre le ha lasciato in dote, rimane comunque pesante.
Un soggetto insomma che nei suoi elementi essenziali potrebbe far pensare al consueto e un po’ usurato percorso distruttivo abitualmente riservato a storie di famiglie disfunzionali e un po’ dissociate come questa, ma che il regista riesce a sfrondare da tutti i cliché della convenzione, compreso quelli dei possibili eccessi melodrammatici, ricorrendo a una messa in scena organizzata su più livelli che si intersecano e si sovrappongono, fino a produrre uno sviluppo abbastanza atipico e molto articolato della struttura narrativa e dello stile. Nessuna tesi da dimostrare dunque, ma un percorso quasi obbligato di formazione in grado di condurre a una nuova consapevolezza (che però non farà necessariamente rima con “salvezza”).
Un film così straziante, commovente e nero (ma per fortuna anche carico di premi e di riconoscimenti), non poteva che spaventare la distribuzione italiana che lo ha fatto arrivare nelle sale dopo molte titubanze e una prolungata attesa (oltre un anno e mezzo di ritardo). Meglio tardi che mai, si potrebbe dire, anche se poi alla fine, come purtroppo accade ormai regolarmente con le opere di pregio e un po’ difficili come questa, nemmeno il pubblico pagante ha risposto all’appello e lo ha accolto abbastanza tiepidamente (gli incassi in sala hanno di poco superato la quota dei 540.000 euro).
Forse c’era anche la preoccupazione della profonda cupezza di un film che mostra spudoratamente il male assoluto che abita in certe famiglie (e sappiamo bene come è disturbante qui in Italia una siffatta tematica) a rallentare il passo e a legittimare molte titubanze. Peccato però che si sia avuto così poco coraggio: si è evidentemente sottovalutato il fatto che “quel male” Daniels lo racconta in modo assolutamente originale. Se niente ci viene risparmiato del calvario di questa ragazzina, dalle offese della madre agli stupri del padre, dall’emarginazione della scuola al disprezzo per la gelatinosa massa del suo fisico, ciò che rende alla fine consigliabile – e sopportabile - la visione dei suoi drammi, è proprio dovuto a questa originalità narrativa e alla trasfigurazione che gli occhi innocenti di Precious riescono ad operare sulle violenze, trasferendo l’orrore in una dimensione quasi onirica e grottesca un po’ stralunata e straniante.
Le deformazioni espressionistiche della casa immersa nell’oscurità, una certa dose di humour nero, quei corpi e quei volti mostruosi che vomitano terribili parole, diventano così la proiezione della sofferta interiorità di questa giovinetta devastata, ma anche la sua personale strategia di sopravvivenza, visto che nel sogno può persino trasformare la propria obesità in un attributo di immaginifica bellezza.
Le componenti psicoanalitiche (soprattutto freudiane) del racconto sono molto esplicite (“i legami di sentimenti libidici con persone dello stesso sesso hanno come fattori nella vita sessuale normale un’importanza non minore di quelli che si rivolgono al sesso opposto” – Sigmund Freud, Tre saggi della teoria sessuale, Boringhieri Editore) e mettono in risalto non solo l’aspetto eterosessuale dei “contatti” interpersonali che ne derivano (il problema edipico connaturato nelle violenze sessuali del padre sulla figlia) , ma anche quello che si definisce (ancora nell’analisi freudiana) come omosessuale (preedipico appunto) che coinvolge prima di tutto la relazione duale madre-figlia a cui viene affidata la funzione riparativa ed elaborativa delle ferite subite (Antonella Antonetti) ma che si riverbera anche su quella con l’insegnante lesbica che contribuirà al suo riscatto (niente che si connoti come un qualcosa di effettivamente sessuale, comunque). Il confronto serve semmai ad evidenziare bene il contrasto fra una madre naturale (quella biologica) che espone la figlia a esperienze tossiche e la piega alle proprie necessità, e una madre invece “putativa” (la sensibile insegnante piena di tenerezza e di empatia, oltre che di autentico interesse per gli altri) che si sostituisce al momento giusto per colmare un vuoto, e svolgere così “indirettamente” la funzione di guida e di sostegno di cui ha bisogno la ragazza e che le è sempre mancata nella sua famiglia, una traslazione di ruoli, che spazza via molte precotte convinzioni a tesi della nostra società, e che dovrebbe far riflettere su molti consolidati schematismi ormai un tantino anacronistici. E nello svolgimento della trama, è proprio l’elemento femminile quello che risulta prioritario e predominante, che si declina attraverso molti personaggi tutti significativi e ben disegnati nei loro sentimenti, nelle loro qualità e nelle loro miserie, descritti sempre con sguardo compartecipe e compassionevole. L’elemento maschile rimane invece molto più marginale, quasi “funzionale” si potrebbe dire, confinato e imprigionato quasi esclusivamente nel cono d’ombra della violenza paterna.
La descrizione della brutalità, dell’ignoranza e della sopraffazione fisica e verbale, dilaga a tutto schermo in molti momenti comunque, e il segmento dello stupro è particolarmente doloroso e disturbante: una sequenza davvero di grande impatto emotivo, ma molto rarefatta e raffinata grazie a una curatissima costruzione dinamica e frammentata delle immagini (un corpo pesantemente sbattuto sul letto, una cintura che si sfila, un ventre un po’ peloso e pieno di smagliature evidenti… un uovo che sfrigola in padella) che nella sua essenzialità crudele, rifugge totalmente da ogni possibile tentazione voyeristica.
Film sui corpi resi mostruosi dall’abiezione o dal grasso, Precious è però anche una esaltazione del potere della parola (e della conoscenza), intesa anche come forza manipolatrice delle cose (e quindi non solo in senso positivo). La potenza affabulatrice del linguaggio può diventare infatti addirittura malefica, se utilizzata come ben sa fare la Signora Jones, una madre-strega che se ne serve sapientemente (e scientemente) proprio per schiavizzare la figlia o per raccontare all’assistente sociale la sua personale versione dei fatti e della storia della sua famiglia, in una delle confessioni più lucide, disperate e agghiaccianti mai sentite o viste al cinema, che è valsa meritatamente il Golden Globe e l’Oscar all’attrice che la interpreta, perché qui i caratteri (e quello dell’orrenda genitrice in particolare) hanno segni precisi e ben connotati, e le situazioni che li definiscono, sono rappresentate con asprezze quasi violente in una cornice all’insegna del più totale degrado fisico e morale che non lascia scampo.
La protagonista, la quasi esordiente e mastodontica (per mole e peso) Gabourey Sidibe che viene dal teatro, ha una sua gestualità disinvolta che appassiona, ed è bravissima a tratteggiare un personaggio oggettivamente al limite come quello della tenera e inquietante eroina della storia, senza lasciarsi mai ridurre a “caso” emblematico: un portento di efficacia e di misura che merita davvero il plauso. La madre “depravata e mostruosa” che la fronteggia e vuol continuare a dominarla (la migliore in campo) è Mo’Nique, più conosciuta come attrice comica, ma che qui certo non fa ridere ed è davvero strepitosa nel suo ruolo di perfida madre “snaturata”, soprattutto nella scena finale già citata prima, dove si contrappone anche fisicamente e nel vestiario alla trasandatezza della povera Precious, agghindata con turbante e colletto di pelliccia intenta a vomitare parole irripetibili: quello è un momento davvero da ricordare che ha il sapore estremo della verità, forse perché la realtà che è stata chiamata a rappresentare, non e poi nemmeno molto lontana da quella terribile esperienza da lei vissuta in prima persona, visto che durante la sua infanzia, fu a sua volta vittima di abusi sessuali da parte del fratello).
Fra gli altri interpreti, da ricordare anche la significativa presenza di Lenny Kravitz e Mariah Carey, una volta tanto persone e non icone.
Da segnalare come nota tutt’altro che secondaria, che nonostante la totale assenza di morbosità nell’esporre alcune delle tare meno edificanti di una parte della comunità afroamericana, anche nel suo paese d’origine il film ha subito pesanti ostracismi da parte dei portavoce del più ottuso apartheid, che prima lo hanno inutilmente osteggiato e poi hanno tentato di liquidarlo con argomenti tendenziosi che definirei “andreottiani” (i panni sporchi è necessario lavarseli in famiglia) accusandolo insensatamente persino di razzismo proprio per tutte quelle aberrazioni a loro dire troppo scopertamente esibite, ma che il regista ha rappresentato invece con un efficace stile “fuori misura” come la sua eroina, certamente un tantino ridondante, ma totalmente privo di compiacimento o di sensazionalismo.
La trama, che ripeto in sintesi, è praticamente questa: Harlem, 1987. Precious Jones è una studentessa sedicenne che ha alle spalle un percorso di vita molto complicato e doloroso e un presente altrettanto disturbato. Semianalfabeta e obesa, vive con una madre violenta e volgare, ed è alla sua seconda gravidanza, di cui ancora una volta è responsabile suo padre. Per tale motivo, viene allontanata dalla scuola che frequentava passivamente e spedita in un centro che si occupa di ragazzi con problemi sociali. In quella scuola alternativa dove stanno cercando di farle per lo meno recuperare un livello accettabile di istruzione, Precious conosce Miss Rain, la sua nuova insegnante, che con i suoi piacevoli modi la invoglia a impegnarsi nella lettura e nella scrittura e ad imparare finalmente ad amare se stessa per ciò che è e a ricomporre il senso di autostima che ha smarrito. Per Precious inizia così il percorso di una difficile presa di coscienza che la porterà ad affrontare positivamente la nuova gravidanza, a sottrarsi ai continui abusi della madre e ad accettare anche il peso di essere sieropositiva, ultima infausta eredità ricevuta dal padre prima che questo morisse stroncato dalla malattia.
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