Regia di Antoine Fuqua vedi scheda film
Antoine Fuqua ci riprova con il poliziesco urbano ma il risultato fatica ancora a convincere. Meno urlato ed eccessivo di “Training day” ma ugualmente convenzionale e prevedibile. Forse è un problema di sceneggiatura (basta con storie diverse seguite in montaggio alternato e destinate a sfiorarsi/incontrarsi nel finale). Forse è un problema di regia: Fuqua (ha diretto gli impresentabili “L’ultima alba” e “King Arthur” vorrà pur dire qualcosa) insiste nel descrivere il marcio e la deriva della metropoli e del dipartimento di polizia, ma il tono è didascalico e risaputo (in questo la prima parte di “Training day” mi pareva più efficace), il ritmo è fin troppo rallentato e diluito. Forse è un problema di caratteri, oltremodo riconoscibili e stereotipati. Forse è colpa delle serie televisive di questi ultimi anni, spesso pregevoli, che hanno inflazionato oltre misura il genere, riducendo drasticamente i margini di manovra. Forse è un problema di attori: Ethan Hawke, nei panni dello sbirro disperato ultra cattolico con numerosa famiglia a carico, in continua ricerca di denaro, ricicla tic ed espressioni da “Onora il padre e la madre”. Richard Gere, stanco, annoiato ed avvilito poliziotto alle soglie della pensione e del suicidio che trova consolazione in una giovane prostituta con cui vorrebbe scappare altrove (un po’ come Burt Reynolds e Catherine Deneuve dello splendido “Un gioco estremamente pericoloso” di Aldrich – ogni paragone, ovvio, è improponibile), è appassito ed indolente (quanta differenza dal protagonista di “Affari sporchi”). Don Cheadle, al solito, è il migliore e più misurato ma anche il suo personaggio di agente infiltrato che “rivuole la sua vita” non regala particolari sorprese o emozioni. Forse infine è un mio problema: non riesco a vivere e sentire questi film con l’entusiasmante coinvolgimento e la convinta partecipazione che ci vorrebbero. Li trovo distanti, compitini ben fatti e professionali ma del tutto privi di anima e di passione. Impersonali e programmatici. Non credo siano sufficienti serrati confronti dialettici, presunte pretese realistiche, concitate sequenze d’azione (qui a dire il vero un po’ scarsine), ricercatezze psicologiche o forzate scene madri per confezionare un robusto ed onesto film di genere. E’ tutta questione di polso e personalità e Fuqua è e resta un mediocre. “Brooklyn’s finest” è inoltre penalizzato da un concitato finale, inutilmente enfatico, schematico e troppo a lungo rinviato, limite che peraltro affossava anche il film con Denzel Washington e da alcuni sviluppi narrativi anche improbabili che ingolfano ulteriormente la già pesantuccia trama. Rimane il gioco di individuare alcune vecchie conoscenze: da Vincent D’Onofrio (è l’informatore fatto fuori in auto all’inizio del film) a Wesley Snipes (ottimo) da Ellen Barkin (a dire il vero piuttosto malridotta) a Lily Taylor fino a Will Patton. Un poliziesco solo ordinario e dignitoso dai dialoghi già troppe volte sentiti (“Hai 20 anni di servizio davanti. Questo lavoro stressa parecchio, non portartelo a casa!”) che aspirano invano ad essere essenziali ed incisivi. L’asciuttezza e la malinconia degli anni settanta per me rimangono ancora un ricordo lontan(issim)o. Leggere a proposito di questo film che sarebbe uno dei migliori polizieschi degli anni 2000 (così ha scritto Simone Emiliani su Film Tv, ma in rete si trovano altri pareri entusiastici) può significare due cose: o io non capisco (più) niente oppure si è talmente abbassato il livello qualitativo medio che, di fronte al meno peggio, ci si accontenta a tal punto da salutarlo a volte con un inspiegabile entusiasmo, quasi a volersi convincere che “il genere sia ancora vivo”. Evidentemente ho parametri più esigenti: qui siamo nel campo, a dire il vero sempre più esteso, del vorrei ma non posso. Scritto da William C. Martin.
Voto: 6
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