Regia di Terrence Malick vedi scheda film
Anni 50, il sogno comincia a sgretolarsi a partire dalle sue fondamenta. La famiglia. Un padre autoritario, una madre eterea e dolcissima. Tre figli dagli sguardi che racchiudono il segreto dell’universo. Flashback se si può chiamare così il ritorno al brodo primordiale che per un bizzarro rintocco simultaneo di condizioni favorevoli ha prodotto la vita evolutasi fino a quella famiglia. The tree of life è la summa del cinema di Malick, tappa di un percorso filosofico prima che cinematografico. Magnifico, dilatato e solenne come una preghiera, potente e terribile quanto percorso da note di una lievità disarmante nella sua poetica di contrapposizione atavica tra natura e uomo, vita e morte, grazia e violenza. Film ellittico che ruota intorno a due baricentri, il mistero della creazione e la selvaggia propensione a distaccarsi dal creato dell’uomo che non riesce ad accorgersi della grazia che lo circonda. Le due traiettorie si intersecano frammentando la narrazione in epifanie di immagini evocative di un proprio senso esclusivo. E’ la sintassi cinematografica sconvolta che ricombina il racconto in un’ espressionista sinfonia antinarrativa. E’ un film sulla perdita The tree of life, la perdita di un figlio, della consapevolezza delle origini e dei punti di riferimento. La perdita della fede lascia sbigottito e spaventato l’uomo che non riconosce più la materia fine del creato. Questo progressivo distacco acuisce un senso di frustrazione che si tramuta in violenza, l’uomo cieco di fronte a ciò che non riconosce, tende a distruggere. Questo è l’uomo, il padre generatore, ferreo e automatico. Spietato nel negare la propria umanità prima che a sé, ai propri figli. La madre invece è la natura, sensuale e morbida, sottomessa e forte al tempo stesso.
Passo narrativo da film autoriale europeo piuttosto che americano, Malick dirige uno straordinario Brad Pitt in un racconto sospeso tra Sokurov e Tarkowskij sulla natura dell’esistenza riassunta nei controluce che tolgono identità ai personaggi e nel montaggio intellettuale che accomuna in un unico universo senza tempo le piccole vicende dei personaggi e i grandi disegni del cosmo dal big bang in poi. Frequenti jump cut spezzano la consequenzialità della narrazione per abbracciare l’emotività piuttosto che la successione degli eventi. Sguardi sottratti ai bambini oggetto e preda, sensibilità che sfumano nel non detto. La perdita delle naturali coordinate cinematografiche riporta lo spettatore nel proprio IO più profondo, quello delle emozioni. E questo fa paura. Fa paura avere pazienza e rimettere in gioco il comune senso del visibile. Fa paura scoprire che non siamo più abituati a sentire, preferendo capire o far finta di non capire. Per questo o viene accettato o rifiutato in toto, questo film, meritatissima Palma d’Oro. Perché mette alla prova.
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