Regia di Terrence Malick vedi scheda film
Bello. Di una bellezza puramente estetica. Suggestivo. Di una suggestione assolutamente superficiale. Raffinato. Nel senso di elaborato secondo un progetto molto preciso, fino a raggiungere il desiderato appeal: insomma, costruito. A tavolino. E pure in maniera bieca, palesemente artificioso nell’imposizione di una fotografia che ‘ha visto la luce’ (metafora divina) di Emmanuel Lubezki, quattro nomination all’Oscar finora, delle quali una per il precedente lavoro di Malick, The new world. In questo film persino gli interni sono costantemente sovrailluminati: è una bellezza ostentata e che non dà i brividi, quella di The tree of life: anzi, alla lunga finisce addirittura per irritare. Era dai tempi dei famosi spot del Mulino bianco (anni ’80 e primi ’90) che non si vedevano quadretti domestici così graziosi, ordinati, accattivanti. Peccato però che qui nessuno venda Tegolini: ciò che il regista e sceneggiatore ci vorrebbe spacciare è soltanto la sua – originale o banale che sia – visione del mondo e della vita. Mica poco, sia chiaro. E sia altrettanto detto esplicitamente che Malick è bravo in tutto ciò che fa; è bravo e ambizioso, ma a quanto pare ha esaurito le idee nel 1978 (I giorni del cielo, suo secondo lungometraggio): dopodichè si è sempre e solo ripetuto, fra alberi frondosi inquadrati dal basso verso azzurri cieli luminosi e proclami etico-filosofico-teologici di una gratuità che farebbe arrossire Godard (la forzatura della voce off, vera protagonista di La sottile linea rossa, di The new world e anche di questo The tree of life), nonché discutibili di per sé. Al culmine dell’ebbrezza creativa, Malick finisce per clonare idee vecchie di mezzo secolo (il girotondo finale sulla spiaggia: ha plagiato di più 8 e ½ o La dolce vita? Di sicuro deve trattarsi di un film di Fellini) oppure di appena quarant’anni come quella kubrickiana di rappresentare il richiamo ancestrale dell’esperienza esistenziale. Ma se là erano scimmie e monoliti, qui molto più pateticamente troviamo big bang e dinosauri: però attenzione, questi sono dinosauri creati da Dio, in una clamorosa deriva fantascientifica poiché, come sanno ormai anche i bambini, Dio non esiste. Ed è qui che The tree of life pecca maggiormente, poiché non sa contenersi, fa semplicemente spudorata propaganda cristiana per due ore e venti di fila: come uno smisurato bel documentario sulla Bible belt e sul mondo WASP (basti citare l’apertura in cui l’onnipresente voce off ci insegna che esistono solamente due modi per vivere: nella grazia e nella natura; e da quel momento è talmente scontato che i due stimoli siano rappresentati, per il protagonista, rispettivamente dalla madre e dal padre, che non vale neppure la pena di spenderci sopra una parola di più). È insomma un film a cui bisognerebbe non dare eccessiva importanza per evitare che venga a crearsi una rovinosa christian-wave cinematografica cui si presterebbe come indiscutibile manifesto. Purtroppo a Cannes la giuria si è fatta corrompere dal fascino misterioso del personaggio-Malick, dalle sempre piacevoli interpretazioni di Brad Pitt e Sean Penn, dai soliti effetti speciali (Brian Cross e Ryan Roundy, con la collaborazione – guarda te – di Douglas Trumbull, padre degli effetti speciali di 2001: Odissea nello spazio) e dalla patina zuccherosa che ricopre il film. 6/10.
Lo spartiacque nella vita del piccolo Jack è rappresentato dalla morte del fratello maggiore. A quel punto Jack rifiuta Dio e il padre, mentre quest’ultimo tenta di insegnargli l’importanza di credere in sé e dalla madre apprende l’amore e il rispetto per il prossimo.
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