Regia di Tim Burton vedi scheda film
I romanzi di Lewis Carroll, la regia di Tim Burton, la produzione Disney: la montagna ha partorito un topolino. Alle prese con una storia che sembrava avere tutte le carte in regola per scatenare la sua macabra fantasia, il regista si adegua eccessivamente allo standard Disney e finisce per steccare. Alice in Wonderland, sia chiaro, non può definirsi propriamente un film brutto, o almeno non dal punto di vista estetico, dal momento che le buone intuizioni visive non mancano. E' piuttosto un film sbagliato, un Tim Burton normalizzato, carino nel senso più arcaicamente disneyiano e vuoto del termine, quello secondo cui leggerezza tende a far rima con inconsistenza: può piacere ai bambini e a chi si accontenta di film fatti solo per gli occhi, ma difficilmente avvincerà chi da uno dei registi più visionari e talentuosi in circolazione si aspetta sempre quel qualcosa in più. La cattiveria, l'anima nera e dark, marchi di fabbrica del suo cinema, non emergono praticamente mai, ma restano mimetizzate e represse sotto una superficie fatta di personaggi eccentrici ma bidimensionali e di atmosfere che di gotico hanno solo i colori. Tra i personaggi l'unico a convincere (con riserva) è la Regina Rossa interpretata da Helena Bonham Carter, deforme perfida e genuinamente burtoniana, seppur anch'essa non immune alla generale tendenza alla macchietta. Simpatici e nulla più alcuni (tra cui i gemelli grassoni Pinco Panco e Panco Pinco che parlano per doppie negazioni), da dimenticare altri, in primis il Cappellaio Matto (o depresso?), con Johnny Depp in una delle prove più incolori della sua carriera che arriva addirittura a coprirsi di ridicolo in occasione dell'insulsa "deliranza". Non convince quindi questo ritorno di Burton in casa Disney (che l'aveva già prodotto e frettolosamente bocciato nel lontano 1984 in occasione del suo primo cortometraggio con attori in carne e ossa, Frankenweenie), perché il regista, forse intimidito dalle grosse aspettative, sceglie di tenere un profilo basso, di limitarsi al mestiere preferendo tendere sommessamente all'impersonale piuttosto che osare, allontanandosi in un sol colpo sia da se stesso che da Carroll, dando importanza alla resa grafica di determinate scene ma rinunciando ad un discorso più profondo, finendo per confezionare un film destinato al successo ma piatto innocuo e lontano anni luce dalle sue opere migliori, e a cui oltretutto non giova il ricorso coatto alla tecnologia 3D, che, aggiunta in postproduzione con l'unico scopo di estorcere tanti soldi e qualche "wow" in più a spettatori avatarizzati, risulta non solo superflua sciatta ed evitabile, ma anche fondamentalmente deleteria, perché nelle poche scene in cui è presente rende il film ancor più superficialmente giocattoloso di quanto già non lo sia, e nelle altre si fa notare solo per il costante effetto "penombra" causato dai miracolosi occhialetti.
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