Regia di Tim Burton vedi scheda film
Ci aspettavamo una trionfale fanfara dell'immaginazione, un'altra dolce fantasticheria felliniana, un'evasione invitante e totale. Invece Tim Burton, ben lontano dai manierismi di cui è spesso maldestramente tacciato, ci sorprende con un film amaro, forse la sua opera più dolorosa. Se nelle intenzioni della sceneggiatrice Linda Woolverton tornare a Wonderland significava affrontare i propri demoni e veleggiare emancipati verso una maturità consapevole, per il regista il tramonto dell'infanzia non può che avere il sapore terribile della sconfitta. L'ultima testa che rotola è quella del sogno, e la decapitatrice non è la Regina di Cuori (l'unico autentico freak, una straordinaria Bonham Carter che nelle mani di Burton da carnefice diventa vittima), ma Alice stessa, irrimediabilmente diversa dalla bimba di un tempo. A poco giovano torte e ampolline: man mano che il tempo si srotola, inevitabile come una pergamena già scritta, si è ormai troppo grandi (o troppo piccoli) per le beatitudini della fantasia. Il rosso brillante del mazzo di carte lascia spazio al grigiore marmoreo della scacchiera: è come se la Città del Natale bandisse Jack e Halloween, come se il compasso severo dell'Aldiqua de La Sposa Cadavere vincesse sul jazz del suo Aldilà variopinto. Sicuramente più vicino a Mulholland Drive che a Carroll, Burton canta un'elegia funebre alla fantasia e all'illusione, un poema sulla più traumatica delle disfatte: crescere. L'addio che Alice rivolge al Cappellaio, baricentro scombinato di quest'interiorità sottosopra e maschera, tragica, della sua follia, è tra i momenti più commoventi di tutto il suo cinema.
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