Regia di Terry Gilliam vedi scheda film
Un caleidoscopio cangiante di forme e di colori che anima un mondo suggestivo e paradossale, meraviglioso come una fiaba e al tempo stesso pauroso come un incubo dal quale non sempre è possibile risvegliarsi e dove tutto è possibile, persino ricrearsi, rivivere e perpetuarsi in altre mutevoli sembianze.
La multiforme poliedricità dell’artista: è forse questo che in fondo ha voluto “celebrare” insieme al mito di Heath Ledger immaturamente scomparso durante le riprese, e qui sublimato verso la sua definitiva “immortalità”, Terry Gilliam con questo straordinario baraccone delle meraviglie e la messa in scena delle vicissitudini del suo tormentato proprietario, moderno e instabile Faust in sedicesima in perenne lotta col diavolo e col destino.
Non so quali e quante modifiche sono state apportate al progetto originale a causa della imprevista dipartita di Ledger, ma si avverte prepotente l’impronta e l’eco di quel tragico evento che aleggia prioritario sull’opera e la condiziona, la rende forse più disomogenea, certamente però non ne diminuisce la straordinaria potenzialità visionaria, che ci porta inevitabilmente a esplorare territori meno rassicuranti e prevedibili, ma indubbiamente – e proprio per questo - carichi di un fascino avvolgente che altrimenti non avrebbe potuto essere espresso con analoga intensità (proprio per le implicazioni indotte, per le suggestioni coinvolgenti che ne derivano, per le palpitazioni profonde sospese fra nostalgia e rimpianto che producono, se solo ci si lascia trascinare dalla magia e si va oltre la facciata, nel gioco dei rimandi “specchiati” delle apparenze in costante, continuo e camaleontico movimento).
E’ un caleidoscopio cangiante di forme e di colori ciò che “anima” quel mondo suggestivo e paradossale, al tempo stesso meraviglioso come una fiaba e orrorifico più di un terribile incubo dal quale non sempre è possibile risvegliarsi, ancora una volta uno spazio neutro (quello dell’immaginario sublimato dal desiderio) che possiamo “riempire a piacimento”, dove tutto è possibile, persino ricrearsi, rivivere e perpetuarsi in altre mutevoli sembianze, collocato come per Alice (e non è davvero un caso), “al di là dello specchio”, la “zona franca” del bene e del male contrapposti e complementari (sospesa nell’interspazio fra la vita e la morte mi verrebbe da dire, anche se forse è un concetto un po’ azzardato).
Lo specchio dunque… che al di là di quelle che potevano essere le primitive intuizioni, diventa adesso, alla resa dei conti e nella realizzazione pratica, anche una seducente metafora del “trapasso”, capace di trasformare il passaggio nel cunicolo simbolico che ci traghetta, in un’altra fittizia dimensione (ma non per questo meno tangibile e concreta) “oltre la vita reale” della propria quotidiana esistenza.
Ci voleva la genialità intuitiva di un grande regista allucinato e un po’ maledetto come Gilliam per osare così tanto e compiere il miracolo, ma in quel mondo fantasmagorico, fra scenografie dipinte alla Méliès (che rimandano anche alla magnifica stilizzazione della visione artificiosa e ingannevole del sogno operata da Burton con il suo straordinario Charlie e la fabbrica di cioccolato) e i mirabolanti effetti speciali che nascondono perfettamente il loro avveniristico tecnicismo, effettuati in oltre sei mesi di lavoro di post-produzione grazie all’intervento creativo compiuto con il contributo della Peerpless Camera Company, la società che ha sempre collaborato alla realizzazione delle opere di Gillian (e la complice sintonia che li unisce, si avverte benissimo e si estrinseca in un speciale convergenza di intenti e di risultati creativi) anche il nostro inconscio prende forma, diventa un immaginifico universo parallelo dove tutto è davvero fattibile e a portata di mano. Un immenso, spettacolare luna park, all’interno del quale il burattinaio muove i suoi personaggi con indubbia maestria, per riproporci ancora una volta l’infinita, eterna battaglia fra il bene e il male, ma anche fra realtà e finzione, fra l’essere e l’apparire insomma, facendoci intravedere ciò che si nasconde dietro la maschera posticcia rappresentata dalla convenzionalità della nostra “realistica” messa in scena quotidiana.
Pur se il meccanismo è perfettamente oliato nei sui complessi ingranaggi un po’ stordenti che regolano e sincronizzano quel carosello delle meraviglie che ci viene elargito e che ci fa anche un po’ confondere a volte (quasi disperdere direi) fra piume e lustrini, trucchi, giostre, funamboliche scenografie, nani, ballerine, apparizioni creative e figure realisticamente concrete, innegabilmente (e questo era - credo – inevitabile che potesse accade in qualche marginale fronda, proprio a seguito delle complicate vicissitudini derivate dall’evento traumatico), ogni tanto si avverte qualche piccolo inceppamento che definirei “disorientamento transitorio di raccordo”, qualche leggera “distrazione” temporanea che allenta la tensione, tutti elementi di per sé un po’ disgreganti, ma che non inficiano poi più di tanto il risultato complessivo, esaltato da momenti straordinari di cinema e di emozioni, come il monologo (che è davvero uno dei punti “clou” di tutta la rappresentazione) su coloro che non devono vendere l’anima al diavolo (o fare i conti con il quadro celato in soffitta come il Dorian Gray di Oscar Wilde) per diventare immortali o restare eternamente giovani, perché lo sono già loro malgrado e rimarranno così per sempre (le celebrità talentose ovviamente, quelle “che lasciano il segno”, poiché è di loro che stiamo parlando, e il riferimento esplicito anche commemorativo alla figura di Ledger e al suo essere ormai per sempre un irraggiungibile “grande”, è evidente e “voluto” proprio per rendere ancor più esplicito il messaggio) elargito con la consueta, istrionica disinvoltura un po’ canagliesca, da uno smagliante Johnny Deep (chi altri, se non il divo – inteso come definizione - in effetti, potrebbe avere una analoga capacità di fermare anche per il futuro la straordinaria opulenza che riconduce al momento del massimo, irreversibile splendore, così da diventare l’icona immutabile di una rappresentazione fittizia quanto si vuole, ma che assolve il ruolo della leggenda, tanto da rimanere per questo (anche nell’immaginario collettivo) sempre bellissimo nella propria infinita giovinezza senza tramonto, identico e immodificabile e che non sarà mai né povero o malato, né tantomeno “vecchio” o segnato dal tempo che galoppa… anche se il prezzo da pagare alla irreversibilità della bellezza “senza fine” (e questo lo aggiungo io), è spesso veramente salato, corrisponde a quello della vita, perché l’entrare nell’olimpo del mito coincide quasi sempre con una morte prematura e assurda, l’unica cosa che davvero staticizza e alimenta la "leggenda".
Un altro indimenticabile momento, è quello che riguarda l’entrata in scena drammaticamente sublime di Ledger, quale impiccato penzolante da un ponte (che è molto più di una premonizione) alla maniera di Roberto Calvi o dell’immagine codificata dei tarocchi, prima della “rinascita alla vita”, quella specie di resurrezione non miracolistica, che lo farà lentamente diventare l’anima della vicenda, di qua e di là dallo specchio, trascolorato (dalla sorte reale) in quell’essere cangiante e mutevole, al tempo stesso un simbolo e una metafora di pregnante efficacia coinvolgente, camuffato e rigenerato nelle mutevoli forme di coloro che “generosamente” hanno accettato di diventare lui dietro il sipario di velluto del teatro che è un'altra finzione illusoria, ancora e sempre “al di là dello specchio” perché gli attori giocano persino con la sorte e la predestinazione, sono consapevoli di avere il privilegio di possedere “la capacità beffarda” di riuscire ad imbrogliare anche Satana (non per nulla una volta non potevano essere nemmeno seppelliti in terra consacrata!!!)..
Il vero nodo centrale, quello definibile come il “nocciolo della questione”, è dunque proprio la necessità imprescindibile di tener conto che questa è poi e sempre “l’ultima volta di Heath Ledger”, la sua incompiuta, virtuale presenza, il suo “canto del cigno” (e Gilliam nel trasformare in quattro la sua persona, è stato bravissimo a fare di necessità virtù fino a renderlo davvero “indimenticabile” icona). E’ quindi con questa realtà che dobbiamo fare i conti per ammirare, esaltarci o discutere delle immagini e delle apparizioni, di ciò che veicola e trasmette il senso del racconto, per esprimere il giudizio o decretare il nostro posizionamento emozionale.
Torniamo allora al film in quanto tale - che è poi il terzo lavoro scritto da Gilliam (e riadattato alle circostanze, se non nella forma, sicuramente nella sostanza, per lo meno quella “percettiva”) con la collaborazione dello sceneggiatore Charles McKeown (una scrittura veramente suggestiva e “sibillina” piena di malinconica ironia e di sotterranei agganci con la nostra vita) dopo lo spettacolare, lussureggiante (purtroppo largamente incompreso) Le avventure del Barone di Munchausen e il magnifico Brazil - e alla storia che racconta (ma partendo dal presupposto sopra espresso), che è quella del Dottor Parnassus (uno strepitoso Christopher Plummer), l’immortale, sapiente inventore di favole che col suo traballante carrozzone, aiuta gli uomini (se lo vogliono) a vivere in forma concreta le proprie fantasie, i propri sogni, le proprie aspirazioni segrete, anche quelle più assurde ed inimmaginabili (e non è sempre del tutto altruista, come scopriremo poi), semplicemente “varcando la soglia di quello specchio” (un’altra simbologia straordinaria come abbiamo visto) che troneggia invitante e terrificante allo stesso tempo dietro il sipario sul suo carretto trainato da quattro cavalli - un affascinante “carro dei Tespi” delle illusioni perdute - coadiuvato da una singolare compagine di guitti emarginati formata, oltre che dalla bellissima figlia ormai quasi sedicenne (una splendente Lily Cole), dai suoi due aiutanti, (il giovane Andrew Garfield e il nano Verne Troyer) impiegati come imbonitori (per la verità di scarso successo) per richiamare un pubblico sempre più restio, resistente e “indifferente” ormai incapace di lasciarsi andare alla suggestione attrattiva del pensiero. A loro si unirà Tony (l’indimenticabile Ledger appunto che si diversificherà poi nei corpi di Johnny Deep, Jude Law – che ha anche il merito di aver permesso di girare i raccordi mancanti al di qua dello specchio - e Colin Farrel) miracolosamente salvatosi dall’impiccagione (complice quel fischietto che lui ha saputo ben utilizzare affinché il cappio della corda non potesse portare a definitivo compimento la sua missione di morte). E sarà proprio Tony - all’apparenza un sedicente, misterioso benefattore dell’infanzia maltrattata - che con le sue spiccate, spregiudicate doti di marketing, oltre che con il suo fascino declamatorio, riuscirà a risollevare le sorti nettamente in perdita della “rinomata Ditta” riportandola agli antichi splendori (ma condizionando anche pesantemente i rapporti e gli equilibri) e diventerà a suo modo il fulcro della vicenda “catalizzandone” il percorso… Nel mezzo, c’è un complicato conflitto secolare fra Parnassus e un diavolaccio (mister Dik) decisamente molto diversificato rispetto agli schemi canonici della raffigurazione classica (godibilmente reso da un disincantato, sornione Tom Waits che potremmo definire una volta tanto, come “il volto giusto al giusto posto”) a causa di un patto di immortalità stipulato in tempi ormai remotissimi, e poi rinnegato per poter ritrovare la giovinezza e riprendere il flusso regolare del trascorrere del tempo in nome di un innamoramento travolgente, che rappresenta comunque sempre un disatteso rispetto degli impegni assunti, accettato dalla controparte in cambio della promessa di poter appropriarsi dell’anima della figlia allo scoccare del suo sedicesimo compleanno ormai prossimo, se non saranno state consegnate prima in sostituzione, le anime di almeno cinque inconsapevoli esistenze. Un debito ovviamente che nessuno vorrebbe onorare, da questa parte, ma che dall’altra viene reclamato con progressiva e tenace cocciutaggine… e vedremo poi come andrà davvero a finire (o almeno lo saprà chi andrà a vedere il film, perchè non è il caso di aggiungere altre parole che finirebbero per diventare un detestabile
spoiler). Ma la linearità della traccia, si complica e prende respiro con le rocambolesche incursioni nell’immaginario, nel “vivere” molte di quelle realtà parallele un po’ strampalate, liberate dalle inibizioni e dai compromessi. Su questo ordito, Gilliam è bravissimo a ricamare, per affascinarci, coinvolgerci e costringerci così ad addentrarci negli infidi meandri segreti del teatro ambulante del suo Parnassus e a confrontarci con il suo spericolato repertorio di prospettive alterate, trucchi circensi, suggestioni quasi ipnotiche, fino a farci approdare nei gironi più profondi e labirintici dell’inferno della nostra immaginazione, fra scenari magniloquenti pieni di scale che arrivano sopra le nuvole, quasi fino ai vertici dell’universo, scarpe gigantesche, prati verdeggianti con una vegetazione da cartolina e apocalittici scenari futuribili quasi post-atomici.
Un film pieno di vitalità e di amore insomma, imperfetto e un po’ pazzoide, intriso di un graffiante umorismo che tradisce le origini (i Monty Phiton) del regista, ma anche pieno di una desolata, impotente malinconia non solo per quelle terribili premonizioni (l’evocazione della morte, anche se spesso in maniera giocosa, è avvertibile e costante, un controcanto funereo pieno di sotteso dolore che accompagna tutta l’opera) che restano a lungo impresse nella memoria, ma anche perché se in un film, nella finzione, si può persino arrivare alla fine ad imbrogliare Satana (o a pensare comunque di essere usciti vincenti), la partita – e non solo quella figurata – nella realtà dei fatti non ha mai una conclusione così conciliante (rassicurante), non possiede il luccicante, magico contorno di quelle illustrazioni delle favole di fine ottocento, purtroppo…. E allora rimane preponderante, prende il sopravvento, la malinconica presenza di un fantasma… quello “cangiante” e mutevole di Ledger, bravissimo e struggente ancor più del solito, che esiste, vive e prende forma, ma soltanto nelle impalpabili sembianze disegnate sul telone bianco dello schermo e solo finchè rimane attiva la luce del proiettore che le rianima e rimanda, per lasciarci subito dopo, quando le luci si spengono e la sala torna buia, più avviliti e vuoti di prima, per quel senso residuo di assenza che ci pervade (e le “assenze” comunque la si giri, sono sempre incolmabili) e che non riusciamo ad abbandonare nemmeno quando poi siamo di nuovo all'aperto, nella confusione pulsante della città in movimento.
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