Regia di Nick Cassavetes vedi scheda film
Ero consapevole che avrei visto un film tutto impostato sui sentimenti, ma non immaginavo a quali livelli, e soprattutto ho avuto l'occasione di misurare quanto scarse siano le mie resistenze emotive di fronte ad una vicenda che ti pone davanti a scelte che implicano disarmanti investimenti di responsabilità. In pratica, dal momento in cui sono entrato in sala, il film mi ha fatto prigioniero e assieme a me ha sequestrato ogni mia resistenza alle emozioni. E questo grazie ad un mix di elementi, non tutti così razionalmente facili da individuare. Al punto che mi viene da domandarmi se sono solo io che mi ritrovo a piangere lacrime autentiche (non metaforiche) per buona parte del film (e dunque in questo caso scoprendomi vecchio bacucco ormai facile preda di ogni trappola emotiva tesa da qualche scaltro sceneggiatore)...oppure se effettivamente la vicenda qui narrata possiede un potenziale di coinvolgimento non comune. Si tratta di una storia di esistenze "scolpite" e modificate dal dolore che deriva dall'insediarsi nel nucleo famigliare di un ospite indesiderato ma che poi finisce col condizionare ogni cosa: la malattia. E purtroppo stiamo parlando di drammi assai credibili, in quanto ditemi voi se ormai esista una sola famiglia che non sia stata toccata dalla malattia, quella cattiva, quella che quasi mai perdona e non offre chance: io stesso ho visto mia madre (ormai molti anni fa ) e mio padre (da poco tempo) entrambi portati via da un tumore. E' una realtà agghiacciante quella in cui il cancro ti piomba in casa così come potrebbe arrivarti tra capo e collo un raffreddore e -tac!- ecco che la tua quotidianità viene rivoltata come un calzino, obbligandoti a guardare dritto in faccia la vita. Esiste addirittura un filone cinematografico che alcuni critici classificano come "cancer movies". Non si contano ormai le pellicole in cui, con tocco più o meno sensibile e delicato, si affronta appunto l'argomento di esistenze "dimezzate" dalla malattia. E qui si presenta il solito problema, su cui però sarebbe errato generalizzare, nel senso che spetta alla sensibilità di ognuno giudicare quale sia il confine ragionevole tra una sceneggiatura onesta e credibile oppure
l'utilizzo scaltro di espedienti emotivi in cui ravvisare gli estremi di un infallibile ricatto nei confronti dello spettatore. Insomma, questo è chiaramente un terreno minato, perchè un regista guidato da uno spirito (anche moderatamente) cinico, se sa come muoversi, può portare a casa ottimi risultati con poco sforzo. Io stesso, che dovrei essere "corazzato" e fortificato da decenni di visioni, sono uno che al cinema cede spesso a meccanismi emotivi di questo tipo, anche se credo di saper ancora distinguere tra ciò che è artefatto e ciò che fa parte di una onesta sceneggiatura. E questa volta sono stato travolto da un fiume in piena di emozioni in cui ho rischiato di affogare. Eppure Nick Cassavetes (solo a scrivere questo cognome, mi tremano le mani!) è regista "a fasi alterne", che se la cava abbastanza bene nel raccontare storie di sentimenti ma la cui caratura non è proprio di prima scelta. Il suo penultimo lavoro, "Alphadog", è lì a testimoniarne tutti i limiti. Ma stavolta è tutto piuttosto diverso da quell'ultima volta. Intanto il romanzo da cui il film è tratto è di indubbia presa emotiva e la sceneggiatura (firmata dallo stesso regista) ha potuto contare su qualcosa di valido e potente. E poi c'è una scelta di cast davvero molto ma molto felice. E in questo tipo di film le possibilità istrioniche dei protagonisti rappresentano il 90% di tutta la faccenda, essendo ciò che fa la differenza. E soprattutto c'è una buona notizia. Pur muovendosi tutta la vicenda su quel "terreno minato" cui prima accennavo, il subdolo ricatto emotivo nei confronti del pubblico è ASSENTE. Incredibile, ma Cassavetes ha compiuto professionalmente un piccolo miracolo: è riuscito, nell'ambito di un "cancer movie", a non premere mai i pedali del pietismo e del patetismo, e tuttavia rendendo il risultato finale estremamente coinvolgente e indiscutibilmente commovente. Questo rivela che il buon Cassavetes, pur ritenuto da tutti (me compreso) regista medio (da qualcuno anche mediocre), qualche talento da qualche parte lo deve pur avere! Nel corso del film, infatti -impresa titanica- non viene mai calcata la mano ed è presente un senso della misura esemplare (che si manifesta caricando i protagonisti di un senso di vibrante dignità che nulla ha a che fare -vivaddio- col martirio). Altro pregio: il film NON è un'americanata, dato che il tema della malattia che sfianca oltre al malato terminale anche chi lo assiste, è argomento universale, il cui carico di dolore è percepibile allo stesso modo a qualunque latitudine del globo. Come si diceva, la storia rientra in un ben determinato ambito cinematografico...tuttavia essa presenta un significativo elemento di novità sul quale è imbarazzante per me aggiungere dettagli perchè rovinerei la visione (raccomandatissima!) del film. Diciamo solo che tale novità è data dall'insorgere di un'aspra contrapposizione madre-figlia. Ma a questo punto è opportuno delineare sinteticamente i fatti narrati. Una famiglia americana molto classica di brave persone (lui pompiere, lei avvocato) piomba nel dramma quando apprendono da una serie di esami che la loro piccola figlia appena nata è affetta da leucemia tumorale, di quelle senza scampo. Allora ai due coniugi si prospetta una sole "luce": quella di far nascere in provetta una seconda figlia, programmandole a tavolino quelle catteristiche scientifiche necessarie a renderla compatibile a donare organi, sangue, midollo e quant'altro all'altra figlia malata. E così, dopo l'infelice Kate, ecco che nasce la sorellina Anna, già condannata fin dal primo vagito a fungere da cavia e da "riserva" per ogni tipo di prelievo. E infatti accade proprio che Anna fin da piccina viene sforacchiata da aghi e sottoposta a continui prelievi di sostanze che vengono poi immessi nel corpicino della sorella più sfortunata. E già qui, chi mi sta leggendo e non ha visto il film, sentirà puzza di pietismo, eppure -credetemi- una sceneggiatura accorta e dei bravi attori riescono a scacciare il fantasma di ogni ricatto emotivo. Anche se poi io per tre quarti del film ho assistito piegato in due dallo strazio e col fazzoletto ormai consumato. E le mie lacrime, oltre ad essere la banale manifestazione esteriore di un pirla, rappresentano anche il tributo ad un cast che meglio di così non poteva essere. Cominciamo dai personaggi "di contorno". Bravissimo l'attore che interpreta il medico che segue personalmente il caso di Kate, ma di cui -sorry- mi sfugge il nome. Poi c'è Joan Cusack, che impersona un giudice cui attribuisce uno spessore emotivo e una sottigliezza di dettagli (anche proprio nella mimica del volto) davvero sorprendenti. E inoltre un Alec Baldwin che interpreta coi toni giusti un avvocato specializzato in cause civili legate a battaglie etiche (il vecchio Alec è però imbolsito da morire, sarà l'età, sarà l'alcool, boh). E veniamo alla famiglia protagonista. Perfetto Jason Patric, un padre che sulle sue solide spalle ha accumulato il peso di una vita difficile, con due figlie "problematiche" e portatrici ciascuna di aspetti così "delicati" che sfiancherebbero qualsiasi padre. Su Cameron Diaz (che dovrebbe fungere -detta in soldoni- da star acchiappa-pubblico) io farei un discorso a parte. Qualcuno ha già espresso dubbi (quando non addirittura il pollice verso) sul ruolo della Diaz, reputandola non credibile. Io non sono affatto d'accordo: l'ho trovata meravigliosa, peraltro alle prese con uno ruolo che richiede il ricorso a sfumature difficili e ambigue. E, sempre su Cameron un'ulteriore considerazione: il suo tipo di bellezza (indiscutibile) non è affatto incompatibile col suo personaggio drammatico, molto diversamente dal caso (per molti versi assimilabile) della collega Charlize Theron, la quale è apparsa in qualche caso troppo forzata ed artefatta in sede di interpretazione di personaggi così devastanti da fare a pugni con la sua (perfino eccessiva) bellezza da top model. La bella Cameron invece, in modo brillante e convincente, riesce a calarsi nei panni di una "madre coraggio" alle prese con decisioni da far tremare i polsi. E per ultimi, ho tenuto i miei due splendidi angeli, due attrici giovanissime ma già lanciatissime e "potenti", talmente potenti (maledette!) da avermi fatto consumare di lacrime un intero fazzoletto. Abigail Breslin è Anna, nata per donare organi che però ad un certo punto si stufa di questo destino "già scritto". La piccola Abigail è cresciuta dai tempi (comunque non lontani) di "Little Miss Sunshine", cresciuta sia fisicamente che artisticamente. Là era una ragazzina curiosa e vivace, qua è una interprete delicatissima e straordinaria, che ci offre una performance davvero maiuscola. A parte il fatto che io la trovo adorabile nei modi, nella postura, in quel suo sguardo così curiosamente "adulto". E per ultimissima la rivelazione clamorosa (davvero!), uno di quei personaggi/attori talmente devastanti da scompaginarti, da sconquassarti, da rivoltarti come un calzino il cuore e la mente! La giovane Sofia Vassilieva (Kate) nemmeno sapevo che esistesse prima di questo film, e di questo faccio ammenda, dato che ho appreso successivamente in rete che lei è già popolare presso il pubblico americano per via di certe sue frequentazioni televisive. La "sontuosa" Sofia (è l'aggettivo più superlativo che mi viene in mente) fornisce a questa malata terminale una vitalità e una infinita serie di risvolti psicologici che reclamano (anzi: gridano!) il diritto ad una candidatura all'Oscar. Si tratta di una delle interpretazioni più sconvolgenti che il sottoscritto abbia mai visto al cinema. Vederla quando, conscia delle poche ore che la separano dalla morte, espone il suo bel viso al sole delle montagne in un'ultima vacanza con la famiglia al completo, vederla come si gode quel sole prima del buio eterno, beh, è qualcosa di straziante. Ma è infinitamente più straziante cogliere quel suo irresistibile sorriso (e lì infatti ho pianto come un vitello) quando si innamora (riamata!!) di un bel ganzo anche lui malato terminale sotto chemioterapia. Il loro breve amore è qualcosa che non si può raccontare. Bisogna vederlo per rendersi conto di come il cinema possa creare nello spettatore un corto circuito strazio-tenerezza a cui non si può umanamente resistere. Naturalmente Kate e Anna fanno già parte, di diritto, del mio immaginario cinematografico e -come mi succede ogni volta che un film mi colpisce al cuore- mi piace immaginare che quei due personaggi esistano veramente, sopravvivendo idealmente alla pellicola, e allora vorrei entrare dentro al film per abbracciare forte quelle due ragazzine e dire loro (nel mio inglese da barzelletta) che voglio un mondo di bene ad entrambe.
Voto: 10
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