Regia di Kenji Mizoguchi vedi scheda film
Confrontandolo con altri film che Mizoguchi realizzò negli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale, questo film non ha forse la veemenza espressiva del piccolo capolavoro "Le Donne Della Notte", ma è certamente più compatto e coinvolgente di "Utamaro", che soffre di una sceneggiatura dispersiva. Qui invece il grande Kenji può contare su un copione ben congegnato, capace di delineare personaggi complessi e di trattare una vasta gamma di tematiche: la fedeltà ai valori morali ereditati dalla tradizione familiare, il desiderio sessuale fagocitato dall'occidentalizzazione della cultura, l'ipocrisia maschile e la solitudine femminile, l'opportunismo e la vigliaccheria indotti dalla guerra, la dimensione metafisica suggerita dal bellissimo finale. Una materia così densa viene valorizzata da una regia inimitabile nel prendere le giuste distanze dai personaggi, evitando giudizi e sottolineature, rendendo sempre ambiguo il confine fra Bene e Male. Non c'è un personaggio interamente positivo, nè uno interamente negativo. Apprezzabile la misura, il tatto, l'intelligenza con cui Mizoguchi gira le sequenze di idillio represso fra i due protagonisti, un concerto di sguardi intimoriti, movimenti interrotti, gesti spezzati, mezze parole, imbarazzi e silenzi, che se da una parte conferma l'abilità del regista nella gestione dello spazio scenico e della profondità di campo, dall'altra (a forza di sottrarre e sottintendere) si allinea a Rossellini e all'allora emergente Antonioni e contribuisce ad anticipare il modernismo degli anni 60.
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