Regia di Kevin Macdonald vedi scheda film
Andrò subito al dunque.
Nomi importanti come Crowe, Affleck, Mirren, McAdams e Wright Penn non fanno, di per sé, grande un film (o meglio: lo avrebbero potuto fare ove la loro recitazione si fosse attestata su livelli molto alti, ma chiarisco subito che così non è stato).
Ciò che fa grande un film è una buona storia, ben sceneggiata e ben diretta.
In poche parole: State of play.
Non una sola buona storia, infatti, ma due, anzi tre… e così ben intrecciate - dal team di sceneggiatori (i curricula dei quali già rivelavano garanzia di qualità) - da rendere alla perfezione la complessità del reale (mentre ben pochi guasti hanno provocato i trascorsi documentaristici di K.Macdonald). Perché di reale (con tutti i distinguo - tanti - del caso) si tratta.
Un film che insedia all’ombra del Watergate la desolante (e pesante) eredità dello scandalo per antonomasia, con l’aggravante che da quell’esperienza (di un sano giornalismo d’inchiesta) paiono essere germinati solo mostri, voraci e prolifici come solamente blogs e testate on-line sanno essere. Anzi no (non solo loro).
Malversazione e corruzione politica, cospirazionismo militare (delle lobbies della guerra… “domestica”), cronismo d’assalto (alla notizia che scotta) e barlumi di etica professionale (segreto o non segreto d’ufficio? Questo è il dilemma), intrighi coniugali (ma soprattutto “extra”), epica crisi dell’editoria e contesa fra il nuovo che avanza inesorabile (il giornalismo telematico) ed il vecchio (quello che muove le rotative) col fiato corto; o più semplicemente: verità e giustizia (su un piatto della bilancia) e profitto, potere e malaffare di palazzo (sull’altro). In perfetto equilibrio.
In poche parole: State of play.
Cioè - mi spiego - un’opera omnia dell’oggi (delle sue leggi; delle sue insidie; delle sue prospettive future). Forse dura e spietata, forse megalomane, forse avveniristica… ma terribilmente intrigante. Come se una fotografia fedele (in quanto già, a tutti gli effetti, reale) su una desolazione inquietante venisse “edulcorata” quel tanto che basta per indorare la pillola e spacciarla per “intrattenimento cinematografico”. Ergo il connubio perfetto fra realtà e finzione.
In definitiva State of play ha i suoi difetti (non mancano le forzature dello script e, mentre certi snodi sono troppo esplicativi, altri lo sono un po’ meno; il ritmo martella che è un piacere… fino ad un certo punto; in più - duole ribadirlo - la recitazione dei protagonisti è quel che è, ma comunque nessuno - Affleck compreso - sfigura mai), tuttavia mi sento vivamente di consigliarlo a tutti gli amanti - mutuando le parole dal motto/parola d’ordine (in campo cinematografico) di un altro brillante utente del sito (GARIBALDI1975) - dello “spettacolo della realtà” (con qualche più o meno piccola licenza, si intende).
Un must imprescindibile per coloro che amano i thriller politici (con l’ immancabile sexy gate sullo sfondo: Stuntman Miglio). Un film dal quale, comunque, imparare molto, per tutti gli altri.
E poi tutti in coro a cantare Long as I can see the light…
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