Regia di Oren Moverman vedi scheda film
“Mai dire caduto, passato ad altra vita. Dobbiamo dire morto o ucciso”. Neanche eroe. E’ una dura lezione sulle conseguenze della guerra, soprattutto in rapporto alla vita di chi resta, dopo la morte di coloro di cui si avverte l’assenza, il vuoto, questo importante film di Owen Moverman, sceneggiatore di Io non sono qui (2007) ed ex militare, nella sua Israele, per quattro anni, che giustamente s’è meritato l’Orso d’argento per la migliore sceneggiatura, al Festival Internazionale del Cinema di Berlino nel 2009.
La storia è difficile anche da raccontare, finanche scriverla. Fra i milioni di soldati che ci sono nel mondo, alcune migliaia muoiono sul campo, ma altrettanti svolgono lavori scomodi. Questi non ammazzano con le armi, ma utilizzando le parole come se lo fossero: è il caso, per esempio, di quei soldati che recano alle famiglie la notizia della morte del loro marito, padre, figlio, fratello. Ogni annuncio è potente quanto uno sparo. Anzi, lo è di più, perché, nel caso dei parenti lasciati a casa, a sopravvivere ogni giorno con il pensiero della morte, quando ci si trova di fronte un amico del proprio figlio, del proprio partner, del proprio fratello o sorella, non c’è tempo neanche di ascoltare fino alla fine quel ch’è capitato a se stessi. Nel caso dei militari degli Stati Uniti, i due militari vengono mandati in coppia: due uomini in divisa, che recitano a memoria, in modo impeccabile, i salmi che l’esercito stabilisce, nel caso di un rito che, nella sua ipocrita sacralità, fa dei due inviati dei veri e propri messaggeri di dolore, in divisa.
I due militari, interpretati in modo egregio da Ben Foster e Woody Harrelson, pur indossando la stessa uniforme, sono molto diversi fra loro: l’uno con l’animo musicale hard rock, ma da buon reduce, ha il cuore spezzato dalla guerra in Iraq; l’altro dai gusti musicali soul, ma fissato con le sue regole di ingaggio, politicamente ed umanamente scorretto. Entrambi, frustrati da un lavoro indecente, sembrano le uniche figure capaci di pagare la colpa di un debito troppo grande, come può esserlo nella sua esclusività la guerra.
Questo non è un film sulla guerra, alla maniera di Milius, Coppola (sebbene ci sia molto dei Giardini di pietra, 1987), ma è molto vicino alle conseguenze della guerra, al modo di Samuel Maoz (Lebanon, 2009) e dell’ultimo Oscar, Kathryn Bigelow di The Hurt Locker (2008), perché non mostra le ferite ancora aperte per una guerra interminabile, come lo è ancora quella in Iraq. Di essa ci mostra l’agonia lenta, che passa attraverso chi è rimasto e vive nei ricordi di un albero piantato quando il proprio figlio era ancora un bambino, o ancorato all’ultimo Natale trascorso insieme, del proprio uomo che, prima di servire con la morte il proprio paese, ha lasciato il frutto della sua eredità. Il regista non evita affatto la messinscena, non stacca, nemmeno mediante il montaggio, l’unità di ogni singola sequenza, costringendo i suoi attori e spettatori a non allentare mai la tensione, a restare sempre inchiodati, ognuno, nel proprio ruolo, accomunati, però, da un’unica sofferenza. Perciò, il risultato è reale: dolore, nient’altro che dolore. Di fronte, solo l’empatia.
Giancarlo Visitilli
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta