Regia di Davide Manuli vedi scheda film
In un universo lunare, è soltanto l’uomo a testimoniare l’esistenza della realtà. Lo fa con poche azioni o parole, magari prive di senso. Anche l’assurdo, infatti, è un modo per dimostrare la vitalità del pensiero; ed i personaggi di Samuel Beckett lo trasformano nel suono ripetitivo di un lamento, di un urlo di protesta contro la condizione di cattività di chi si sente solo, abbandonato alla propria incapacità di vedere, di conoscere, di capire. Nel cinema di Davide Manuli quella forza prepotente e prigioniera si esprime nei ritmi ossessivi della musica techno: un flusso disarticolato di emozioni indistinte e martellanti, che coincidono con i battiti di un istinto ancestrale, facendo a meno della grammatica dell’evoluzione e della produzione di significati. Il fraseggio monotono e delirante si identifica con un primitivo linguaggio del corpo, che non è concepito per comunicare e condividere idee, bensì per segnalare ed affermare la propria presenza, sofferente ma combattiva, disillusa ma non arresa. Il racconto si realizza nella messa in scena di una ricerca senza speranza: lo spettacolo è una creativa pantomima in cui il nulla rimbomba con un’eco psichedelica, multiforme, in fondo variopinta. La piatta evidenza è il bianco e nero delle immagini, che a quella fantasia ribelle fa da burbero contrasto, quasi anticipandone la perentoria condanna alla eterna inutilità. Di vacuità si può morire, ma i protagonisti di questa storia non ne vogliono sapere: si spostano dunque raminghi, senza meta, come anime estrosamente agonizzanti, in un recital itinerante in cui ballano e cantano, declamando maldestramente la propria eccentrica inquietudine. Il triste istrionismo della riflessione esce dall’involucro, esclusivo e rassicurante, del teatro, per avventurarsi in una impossibile invasione del mondo: troppo vasti ed informi sono gli spazi da riempire, e all’individuo, sperduto, non resta che consolarsi con la disperata sensazione di libertà proveniente dalla consapevolezza di essere circondato dall’infinito. Intanto l’umanità che aspetta Godot è incerta se continuare a sognare: si può sottrarre al dilemma solo temporaneamente, lasciandosi travolgere dall’ebbrezza della danza solitaria, che sospende l’interazione con l’ambiente ed il confronto con i compagni di sventura. Ed è proprio in quel momento che Dio interviene, come limite irraggiungibile ed autorità indecifrabile, a ricordare ad ognuno la propria debolezza, fatale e senza rimedio. L’uomo è piccolo in quanto indeterminato, perennemente in bilico tra i due opposti, tra il bisogno imperioso di credere ad occhi chiusi ed il pungolo del dovere di assumere un atteggiamento critico ed autonomo. In Beket le due posizioni convivono in una vibrante armonia, con i soliti dubbi, ingenui ed irrisolti, che fanno da controcanto alla allucinata magia di tanti paradossi pseudoreligiosi.
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