Regia di James Cameron vedi scheda film
"Mentre ero su un letto dell'ospedale militare, con un bel buco sparato nel centro della mia vita, ho cominciato a sognare di volare: ero libero. Ma prima o poi ti devi svegliare". La voce off del protagonista Jake Sully (il Sam Worthington di Terminator Salvation), un ex-marine disabile, ripercorre in flashback, nell'incipit di Avatar, il suo arrivo su Pandora, pianeta a circa 44 anni luce di distanza dalla Terra, e la missione che gli viene affidata: con la coordinazione della dottoressa Grace Augustine (Sigourney Weaver), infatti, deve infiltrarsi, come avatar (ovvero un ibrido umano-alieno attivato con un'interfaccia mentale e un collegamento sensoriale), tra gli indigeni Na'vi che popolano Pandora per guadagnarsi la loro fiducia e trovare un'alternativa diplomatica ad un imminente attacco militare contro di essi, allo scopo di sfruttare i giacimenti minerari del pianeta, preziosa fonte d'energia per la stessa Terra, devastata dalle catastrofi ecologiche. E proprio il messaggio ecologista è il primo Grande Tema veicolato dal film, affidato drammaturgicamente alle connessioni del popolo Na'vi con la foresta, una rete di energia che scorre in tutte le creature viventi, un'energia che "è solo in prestito e che un giorno bisognerà restituire". Ma Avatar non è solo un inno panteistico alla purezza della Natura: il suo monito, infatti, arriva a sfiorare le crudeltà e le efferatezze dell'imperialismo militare, la comprensione della diversità, le degenerazioni sconsiderate della scienza e della tecnologia. Ovvero quei Grandi Temi, capaci di scuotere la coscienza di un pubblico eterogeneo, che l'industria hollywoodiana ha ormai sdoganato e liberalizzato per ogni blockbuster a venire: solo che il pubblico li "legge", correttamente, per quello che simboleggiano, cioè Grandi Temi su cui indignarsi, crescere, maturare, mentre per Hollywood rappresentano esclusivamente ingredienti da dosare sapientemente per alimentare i fast food dell'immagine. Con i suoi 237 milioni di dollari di costi (e quasi tre miliardi di dollari già incassati), i 13 anni di realizzazione, la distribuzione in sala sia in versione 2D che in 3D ed i suoi tre premi Oscar (fotografia, scenografia ed effetti speciali), l'Avatar di James Cameron si erge ad apoteosi tecnologico-futuristica dello spettacolo di massa nel nuovo millennio, un'ambiziosa e sfrenata giostra cinematografica che, nel trionfo definitivo del motion capture e della computer graphic, si propone di colonizzare ogni possibile (e pensabile) nuova frontiera dell'immagine. Tentativo utopistico, naturalmente, perchè la sottile distinzione sintattica tra immagine filmica e pura e semplice fotografia sta proprio nell'anima che "muove" quelle immagini e le ricompone sullo schermo: rapportando l'analisi all'eterna diatriba tra "forma" e "sostanza", è possibile cogliere nella sua pienezza il fallimento di Avatar a volersi ergere a paladino di ogni futura "visionarietà" (nell'accezione più letterale del termine) cinematografica. Manca, all'occhio che compone quelle immagini, la "lungimiranza" espressiva della profondità di campo, manca la trasfigurazione della narrazione in un codice linguistico che sia soggettivamente intelligibile e non oggettivamente mostrato/esibito/rivelato in nome di un'universalità drammaturgica che traduca visivamente i messaggi proposti dal film in un'accettazione passiva, senza uno stimolo all'esercizio critico dello sguardo che non sia quello previsto dall'autore: tutto, infatti, è chiarissimo, evidentissimo, iperdefinito, e allo spettatore, in nome di quest'estetica programmatica nutrita di pixel e dollari, non resta che "subire" lo spettacolo, senza un ruolo attivo all'esperienza filmica che non sia quello di esprimere, o meno, il proprio gradimento. Avatar, perciò, "sposta le frontiere del cinema" dal bancone del bar del multiplex alla quarta fila della sala cinematografica, quella dove non arrivano più neanche gli zampilli del 3D. Rivoluzione sensoriale? Avanzamento delle soglie della percezione? E verso dove? Verso nuovi universi da esplorare? E dov'è la novità, in Avatar? Certo, nella memoria resteranno sicuramente i primi, folgoranti, venti minuti del film, il senso di vertigine evocato dai movimenti funambolici della macchina da presa, il fascino della favola e le meraviglie dell'immaginazione, ma la scrittura affonda il bisturi nella cultura dello stereotipo, ideologicamente raccapricciante nelle sue pretese di voler trasformare ogni "occhio" indagatore davanti allo schermo nella "bocca" di un consumatore. L'originalità del film è nell'aver saputo fondere insieme, spacciandoli per novità, Balla coi lupi e Aida degli alberi, Pocahontas e Apocalypse Now, L'ultimo dei Mohicani e Apocalypto, Guerre stellari e Incontri ravvicinati del terzo tipo: questo è il Nuovo che avanza...
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