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Regia di James Cameron vedi scheda film

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La recensione su Avatar

di AIDES
4 stelle

Il "Grande Magnete" raggiunge posti sperduti, non bastano cera e funi di coscienza per sfuggire al richiamo dell'istituzione. Una scelta insolita e del tutto casuale tuttavia, andare a vedere questo film con tale tempestività. Come qualche illustre maestro ci ha insegnato, al giorno d'oggi bisogna essere distratti e al momento giusto attenti osservatori, per districarsi nel flusso caotico d'informazioni e nel bombardamento mediatico della modernità. E' del tutto lecita in fondo, la curiosità di vedere come si impiegano due-tre-quattrocento milioni di dollari in intrattenimento, e se ci si possa di tanto in tanto, unire gioiosamente al coro globale che acclama le nuove frontiere del cinema. Ho opportunamente evitato i fantomatici occhialetti per vedere quante dimensioni rimanevano all'infuori dell'utensile-avalla futuro digitale. Sono meno di due, una, per la precisione. L'immagine si rivela mestamente una sottile lastra di ghiaccio, di freddezza puramente virtual-virtuosa, quasi sofferente della sua lontananza (in)corporea. Le frontiere del cinema effettivamente ci sono, visibili già dopo una mezzoretta dall'inizio, tutte lì piazzate in sintonia con i gusti della massa, che si sa, non ama troppo avventurarsi in lande sconosciute (a meno che non abbia il 3d, appunto). Il primo buco è dunque quello della forma: si fa fatica a trovare una minima idea di regia, il linguaggio cinematografico è azzerato, il fluire d'inquadrature segue la logica del dinamismo narrativo a due velocità (a seconda dell'azione), l'immagine è mera illustrazione, senza che giunga mai ad una consistenza di significato, di senso. Essa non ha il tempo di prender forma appunto, preda del meccanismo di "autodivoramento rettilineo uniforme" operato dall'incontinente messa in serie. Il 3d avrebbe dato certamente spazialità, mettendo tuttavia in risalto l'assenza di profondità all'interno dell'espansione artificiale. Il digitale pone a mio parere un problema di fondo difficilmente risolvibile: il raddoppiamento della finzione già insita nel medium cinematografico. Tale tecnica sembra l'algida, superficiale colorazione delle ombre stagliate sulla pellicola. Anche se ci si occupa di "sogni" o "favole",  si corre il rischio di congelare il sentimento, che ben più dell'emozione è ampio, nascosto, e restio a concedersi, e che in termini di idee e analogia, è tutt'uno col calore, di per sé fattore di dinamismo, tensione, vita. Gli effetti speciali sono a tratti davvero speciali, tanto che si tradiscono sempre come effetti, in molte inquadrature la "resa delle vertigini" affonda nel vortice di fotogrammi (il grammo traduce in effetti il peso di queste foto, le quali sembrano correre inseguite da non so quale nemico, la noia forse?). Tale concitazione sarà pure una ricerca di realismo, di verità (?), ma in quanto cinica cacciatrice di stupore è largamente ecceduta in ridondanza consumata. Riposta delicatamente ogni speranza di riscontare un carattere, un tentativo d'idea formale, con gesto d'indulgenza ecco che spostiamo l'attenzione sulla storia, senza affondare il bisturi su sceneggiature e drammaturgie. La prima parte e fasi del racconto successive sono accettabili, e a dir la verità, pur non brillando per forza e novità, sembrano aprire spunti interessanti: delineamento di parti e personaggi in modo non manicheo, la crisi d'identità del protagonista straniero a se stesso, l'inconscio e la sapienza primitiva e naturale. Ma i cattivi all'inizio sorridono come in tutti i film, l'amore risolve puntualmente ogni rapporto con il sé (e con gli spettatori), e ahimè, il tema incommensurabile dell'oggetto viene purtroppo mortificato, in quanto edulcorato e solamente sfiorato. Se l'alibi della favola scagiona il film da molte mancanze, è proprio la morte della favola a riportarle a galla. Avatar sfocia nel film d'azione guerresca, mutando in continuazione tra Rambo, Indipendence Day, Apocalypto, Hulk e videogames vari e innominabili, intagliando con la mannaia i buoni(ssimi) e i crudeli(ssimi), e facendo del parossismo visivo-narrativo la maniera di un climax mancato. Oltretutto, false morti (i nostri eroi più di una volta fanno a tempo a bersi una bibita al bar centrale giù al Limbo e a tornare belli freschi e ristorati), morti eluse e rallenty spalma-enfasi stirano la pazienza sulle ustioni di mal di testa a quel punto divampanti oltre lo schermo. Il soggetto non ha originalità, sviluppo e finale sono ampiamente previsti, il politicamente corretto è troppo "corretto" e troppo "(a)politico", e finanziariamente, moralmente, non in linea con lo spirito non-conforme sbandierato ai quattro venti (e troppo di moda a Hollywood, vedi Blood Diamond ad es.). E' questo oscillare tra sogno, realtà, videogioco, cinema, anticinema, postcinema, impegno, fantasmagoria a lasciare confusi, storditi, perplessi di fronte ad un operazione che non ha equilibrio. Più si ha tecnica, mezzi, strumenti e carne al fuoco, più si rischia il caos, lo smarrimento dell'essenza di ciò che si cerca e si realizza. In questo senso i film del muto hanno una forza e una sincerità imparagonabile con la suggestione barocca attuale. Insomma non si era all'appuntamento con la storia, ma con la solita storia (in ogni senso). I clamori del momento assomigliano ai soliti clangori della società spettacolare che ha bisogno di (ripetuti) rinnovamenti, miti, eroi, futuri a portata di mano, rimozioni del passato, "nuovi consumi"(-ati,-abili), e del carattere affermativo di mezzi e medium culturali nei confronti del pensiero e gusto dominante.  Chi ha bisogno di rassicurazioni ed evasione amerà questo film e il suo "dovuto" (scialbo) lieto fine, e continuerà a rassicurare il cinema di poter evadere ogni coraggiosa strada di (vera) ricerca. Cameron ha perfezionato l'opera di distrazione, appagamento, illusione del soggetto. Gli occhiali per la prima volta non servono a veder meglio, ma a chiudere gli occhi totalmente. Dimenticarsi di un corpo e di una mente. L'assenza della "presenza di spirito" nello spettatore avvolto da tre dimensioni (fittizie) in cui a mancare è proprio la sua. La vittoria del filone spettacolare nella storia del cinema (solo in questo non-senso l'opera in questione fa la storia, come fa la cultura, come non instaura nessuna discontinuità oltre l'apparenza) è attribuibile alla nostra sete di sogni, all'intolleranza verso la corporeità (nulla è più afflitto del corpo al giorno d'oggi, depilato e dilapidato nel foto-igienismo dell'immagine-merce, negato nell'esigenza di magia, finzione, onnipotenza irreale/alienata dell'ego). Se il kolossal di Cameron fosse solo un film non sarei andato a vederlo e non ne avrei parlato, ma merita di essere affrontato in quanto " forma" di comunicazione da un miliardo di dollari  che veicola persone ai botteghini come piccoli avatar prestati ad un'esperienza antiestetica e fantasmagorico-suggestiva. La realtà del videogame è ciò che si impone, ciò è il virtuale tecnologico in cui non scorre sangue e linfa alcuna, l'apparenza del futuro che in questo presente non trova la minima premessa di esistenza. L'arte cinematografica precede di gran lunga questo film, non solo cronologicamente, ma esteticamente, e le nuove frontiere semmai stanno altrove, dove ciò è il cinema supera la necessità di doversi con-fermare tale e accompagna l'uomo in spazi che egli, pur calcando ogni giorno, sente in fondo come estranei, autenticando una ricerca espressiva di spessore, avvicinando segreti che a Pandora si cercano con effetti speciali e che non trovano nessuna credibilità. La fusione spettacolo-impegno, intrattenimento- poetica fallisce ancora una volta clamorosamente, all'interno di un sistema cinema in cui l'autorialità finisce troppe volte fagocitata dai meccanismi della tecnomercemostruosità.


[Appendice] Per i più tenaci (in parte tratta da un mio commento alla Play di Maldoror del 4-2-2010).


Se il reale attorno a noi si permea progressivamente di finzione (immagini usa e getta, virtuale, artificialità degli oggetti dell'esperienza, mistificazioni mediatiche, illusione spettacolare, rimozione di una coscienza storica, alienazione, imposizione di modelli dominanti e massificazioni varie, frodi economiche burocratiche e politiche ecc.......) possiamo affidare il futuro della corporeità, dello sguardo, del soggetto al cinema spettacolare fondato sulla fantasmagoria? La quale mira "all'indistinzione tra realtà e immagine"?? Ciò è ad annullare la prima nella dimensione della seconda? Debord dice: là dove il mondo reale si cambia in semplici immagini, le semplici immagini divengono degli esseri reali, e le motivazioni efficienti di un comportamento ipnotico. La realtà sorge nello spettacolo, lo spettacolo è reale". Il reale si è trasformato in immagini, le immagini diventano realtà. "Lo spettacolo è la principale produzione della società attuale, è il cuore dell'irrealismo della società reale". La mimesis di questo film è "ARTE DELL'APPARENZA", sostituzione della vita con un doppio-copia, del corpo con un fantasma. Il cinema, da sempre sospeso tra la realtà superficiale e la realtà profonda, ora sposa la realtà virtuale-fittizia. E lo spettatore è dentro annullato nell'assenza di spirito critico. Coi suoi fantasmi, le sue pulsioni psicofisiche soddisfatte, rassicurate, appagate nell'esaltazione del suo Sè. Egli stesso FANTAsma. Avatar è il punto d'arrivo di un tipo di cinema che simulando in modo sempre più perfezionato la realtà (e dissimulando l'artificialità) "occulta ciò che lo spettatore potrebbe avvertire come dissonante rispetto alla sua abituale visione del mondo". Questo film dell' IO TI VEDO pone l'occhio al posto di Dio (ed è una sorta di punto d'arrivo della tradizione occidentale fondata sullo sguardo come riflesso esatto del reale, sul vedere e sulla rappresentazione), ignorando la limitatezza e l'inganno di un tale assunto. Lo sguardo deve fondarsi sulla comprensione del reale, non sul suo riflesso indisturbato. Lo sguardo deve unirsi agli altri sensi, in primis l'ascolto, e capire oltre l'immagine, a cogliere il suo fondo irrequieto, instabile, latente. Il cinema è riuscito a fondare tale esperienza, non grazie a Griffith, ma per merito dei grandi autori europei degli anni '20.

In Avatar, accanto all’elementarità di una sceneggiatura che ripropone sviluppi e temi estremamente familiari e largamente sfruttati dalla tradizione del cinema rivolto alle masse (messaggi antimilitaristi, ecologia, scienza-natura, topoi sentimentali ormai convenzionali), a livello tecnico,  le “cuciture” della messa in serie, i raccordi tipici del découpage classico servono ad attuare, con perfezione, la fluidità del film, ma anche a nascondere strappi, incongruenze, tagli netti di montaggio e narrazione che potrebbero svegliare lo spettatore dalla sua illusione, dal sogno, dall’apparenza dell’immagine simulacro del reale. Ciò è da un'esperienza voyeuristica di appagamento del proprio Io, nella quale il soggetto  regredisce inconsciamente ad una sorta di stadio infantile in cui non distingue più tra l'esperienza immaginaria e la realtà, e in cui il suo sguardo si fa centro indisturbato della visione, asse del (nuovo) mondo fantasmatico delle immagini, il solo beneficiario di una proiezione totalizzante del proprio Ideale (le immagini sono quelle desiderate)  al di sopra della realtà materiale, attivando così una condizione d'onnipotenza narcisistica del Sé. Il mondo di Avatar è palesemente artificiale, è un prodotto fantastico, uno scenario di fantascienza oltretutto, ma il perfezionamento dell’apparato tecnico-mediatico (stereoscopia, effetti speciali e tripudio visivo, acrobazie delle ricostruzioni digitali ecc…) non solo permette di potenziare in massimo grado l’efficacia fascinatoria delle immagini, il loro potere di suggestione e la loro capacità di far leva sul fondo arcaico della psiche dello spettatore, ma riproduce e rispecchia sempre più fedelmente le nostre abituali modalità di percezione, rendendo possibile un‘immersione pressoché totale nella finzione di una realtà compiutamente, “coerentemente” “altra”. Oltretutto, tale tipologia di cinema rende possibile l'affermarsi di una perversione voyeuristica, in quanto l’oggetto della visione non può interferire nella nostra esperienza: siamo al buio, in solitudine, liberi di guardare, di dominare l’oggetto indisturbati (senza la minaccia di un occhio che ci osservi a sua volta, che ci metta a disagio, in quanto al cinema ciò che abbiamo di fronte non sono che delle presenze umbratili, dei fantasmi), esercitando, all’interno della dimensione dominata dall’Io, una sorta di potere “appagatorio” sulla visione. Per una o due ore, nessuno può compromettere l'illusione del soggetto-Dio. Nel momento di massimo incantamento onirico l’individuo annulla la sua identità. Una parte residua della psiche è consapevole del carattere apparente dell'esperienza che si sta vivendo, tuttavia il desiderio del soggetto è quello di voler partecipare della “natura del simulacro”, essere finzione, esattamente nella misura in cui lo sono le entità della visione sullo schermo, dato che la vera realtà impone solitamente all’individuo un rapporto di più difficile e ardua mediazione (essa ci impone la sua complessità, rendendoci troppo spesso impotenti). Il vuoto che necessariamente incombe su questo tipo di esperienza viene colmato (eluso) sempre più dalla modernizzazione dell’apparato tecnico cinematografico, come già detto in grado di produrre un effetto di realtà ineguagliabile per altre forme artistiche o mediatiche, e di esibirsi come prodezza, come impresa, come feticcio, riflesso che sostituisce un’assenza, che colma il vuoto dell’irrealtà dell’oggetto rappresentato. “L’immagine acquisisce uno splendore, una perfezione, una capacità d’attrazione più che reali, superiori a quelli consentiti ad un essere vivente. “Quanto più si riduce l’intensità dell’esperienza vissuta, tanto più s’incrementa, in un'effimera compensazione, la perfezione patinata dello spettacolo. Il cinema attrae il desiderio nel narcisismo primario e allo stesso tempo cela il fantasma dell’irrealtà con cui lo seduce”. La povertà d’immaginario, la carenza di rapporti-oggettuali concreti, il vissuto, vengono colmati con l’immagine–feticcio, dal coinvolgimento della  “storia”  avvincente e debordante, dall’artificio che simula la verità.


[Si rende merito a Mario Pezzella, dei cui approfondimenti mi sono avvalso per consultazioni e citazioni].

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