Regia di Goffredo Alessandrini vedi scheda film
“L’apparecchio di Luciano Serra sorvola l’Oceano Atlantico”: è l’immaginario titolo di un quotidiano di ottant’anni fa. Questo aspirante Lindbergh nostrano è impersonato da un Amedeo Nazzari appena trentenne, che, dopo il debutto in Cavalleria (1936), interpreta qui il suo secondo ruolo da protagonista. Regista del film è Goffredo Alessandrini, e questi ne cura la sceneggiatura con un Roberto Rossellini esordiente, che alle spalle ha solo alcuni cortometraggi. L’opera è un robusto melodramma maschile, incentrato sul rapporto a distanza tra un padre ed un figlio tenuto lontano da lui per volere del suocero: due individui uniti non solo da un legame di sangue, ma anche e soprattutto dalla passione per il volo, ed ugualmente eroici e sognatori. Luciano è un uomo che ama guardare al cielo e rincorre fantasiosi ideali; all’inizio della storia è un ex aviatore, reduce della Grande Guerra, il quale, per non dover abbandonare il proprio mestiere, sbarca il lunario guidando un idrovolante, messo a disposizione dei turisti che desiderano vedere il Lago Maggiore dall’alto. Il lavoro è scarso e poco redditizio, e la sua famiglia si ritrova presto sommersa dai debiti. La moglie Sandra lo lascia, ma lui si trasferisce in Sudamerica, dove riesce a far fortuna e diventare famoso come esecutore di acrobazie aeree. Sembra la trama di un film a carattere fiabesco, in cui gli incompresi ottengono la loro rivincita usando la forza della fantasia. L’illusione reggerebbe, se gli eventi successivi non prendessero una piega di tutt’altro segno, tale da fare di Luciano Serra un legionario della conquista dell’Impero, celebrato come un fulgido esempio di altissime virtù militari. La svolta inattesa ci ricorda che questo film è stato girato nel Ventennio, all’epoca della guerra in Africa Orientale. Vittorio Mussolini ne supervisionò la lavorazione. Nel 1938 trionfò, come migliore film italiano, alla Mostra del Cinema di Venezia, vincendo il premio che allora portava ancora il nome originario di Coppa Mussolini. La mentalità militarista e coloniale invade duramente tutta la seconda metà dell’opera, pur sforzandosi di far filtrare, attraverso i plateali schematismi retorici, la naturale intensità delle emozioni. Il film è costretto ad aderire alla realtà del tempo, ma non rinuncia, nei limiti del consentito, a portare sullo schermo l’autentico grido del dolore e a incorniciare i protagonisti nell’ombroso alone delle debolezze umane. Di soppiatto, anche il moralismo viene messo da parte, perché, dietro la parola chiave dell’onore, il racconto riesce a contrabbandare il valore della libertà individuale: al posto di uno dei capisaldi dell’ideologia fascista compare un principio esattamente opposto, che si manifesta nel rifiuto di sottostare alle logiche del potere (qui astutamente rappresentato, per sviare i sospetti, da un gruppo di anonimi magnati della stampa argentina). Questo film è il tipico caso in cui le buone intenzioni e la qualità registica vengono sacrificati ad una causa pretestuosa ed estranea all’arte: la capacità di raccontare viene parzialmente messa al servizio di obiettivi propagandistici, però non lascia che questi ne intacchino le potenzialità letterarie e la dignità estetica. Luciano Serra pilota, in fondo, è un’opera ribelle, che, dove può, rivendica la propria indipendenza dai dettami della politica: è una creatura accondiscendente, ma non mercenaria, che fra le righe riesce a farci capire come, in condizioni diverse, sarebbe stata in grado di darci molto di più.
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