Regia di Alain Tanner vedi scheda film
È veramente curioso questo piccolo film girato in Svizzera a ridosso del 1969, che narra della crisi esistenziale di un industriale cinquantenne nel momento in cui si svegliano qua e là le contestazioni studentesche.
Il protagonista si chiama Charles De (interpretato da François Simon, figlio del celeberrimo Michel, quello di père Jules ne L’Atalante, del1934, di Jean Vigo, del losco Zabel ne Il porto delle nebbie, del 1938) di Marcel Carné, e del macchinista Papa Boule ne Il treno del1964 di John Frankenheimer).
Il padre di Carles, da semplice artigiano, ha aperto una fabbrichetta che produce componenti di precisione per orologi.
Il nostro Charles l’ha gestita, per dovere filiale e forse per inerzia, ed ha contribuito ad ampliarla sull’onda del rispetto per la determinazione calvinista del vecchio genitore: una storia comune a migliaia di piccole imprese del Nord Italia.
Ora suo figlio, la terza generazione, è subentrato nella gestione della fabbrica e nel centenario della fondazione, la sta trasformando in una industria quotata in borsa.
Lui, Charles, intervistato dalla TV, a domanda risponde: “Mio padre era un orologiaio, mio figlio è un imprenditore”; ma non aggiunge altro, e si guarda in giro con gli occhi smarriti, consapevole di non esser un abile artigiano come il nonno capace di fondare un impresa e di non essere nemmeno, come il figlio, in grado di sostenere la parte del rampante dirigente d’azienda.
Quello che Charles non sopporta è di ritrovarsi incastrato fra i doveri imposti, di godere di una rispettabilità non meritata, di essere un ricco borghese costretto a recitare il ruolo destinatogli dalla dinastia. A cinquant’anni, è stanco della vita, annoiato dal lavoro, dalla condizione familiare e perfino dal riverente rispetto di cui è assediato e dal benessere.
La sua crisi è così profonda e il suo smarrimento così lacerante che, la sera stessa della festa del centenario della fabbrica, si allontana da casa e si rifugia in incognito in un alberghetto per allontanarsi da un mondo per lui estraneo e ritrovare se stesso.
Dopo pochi giorni conosce una coppia di bohemmienne che vive in una casetta di campagna e sbarca faticosamente il lunario facendo cartelloni e insegne pubblicitarie e si mette con loro.
La figlia lo cerca e lo trova, ma condivide la sua scelta contestatrice e lo lascia in pace.
Anche il figlio lo cerca per farlo rientrare nel suo ruolo o per farlo interdire e sostituirlo.
Il film ha una sua importanza dal punto di vista storico perché nel 1969, nel pieno delle contestazioni studentesche, delle occupazioni delle facoltà in tutte le principali università d’Europa, mostra la crisi esistenziale di un cinquantenne, che non occupa facoltà, non scende in strada a spiantare cubetti di pavé per scassare vetrine contro il capitalismo imperante o attaccare i poliziotti servi dei padroni e dello stato capitalista. Charles De, che potrebbe essere un obiettivo dei contestatori più radicali (chi meglio di lui impersona il capitalista sfruttatore dei prolletari?) si limita a scomparire, a rinunciare a tutto quello che ha: si rifugia in un casotto disadorno, come San Francesco, e prende quel che viene.
Charles non viole cambiare il mondo e nemmeno le dinamiche sociali; non vuole la fantasia al potere, non vuole avviare un conflitto permanente, non vuole scardinare nessuna autorità, non fa suo il motto “soyez réaliste: demandez l’impossible”, non chiede l’immaginazione al potere.
La rivolta del buon Charles, scattata fuori tempo, è quella di lasciare il mondo come è ma di allontanarsene, di non essere conflittuale con nessuno ma farsi esule rassegnato, di non chiedere tutto (come ribadivano i Quaderni piacentini) ma piuttosto di rinunciare a tutto (la prima cosa che i suoi compagni di romitaggio fanno è di liberarsi della sua lussuosa automobile buttandola in un dirupo; e lui non batte ciglio).
Nella sua nuova condizione di esilio o di clausura vive in una sorte di apatia: è così passivo che perfino la ricerca di se stesso potrebbe sembrare un’ambizione eccessiva. E lamentarsi di qualcosa sarebbe un azzardo inaccettabile; il desiderare qualcosa potrebbe essere una volontà da imporsi o da imporre; il voler organizzarsi in qualunque modo potrebbe essere l’inizio di un progetto di vita (e quindi un elan vital). Meglio lasciarsi andare, prender quel che viene, annidarsi nella silenziosa malinconia, attendere nel vuoto, guardare.
Eppure una protesta così passiva e rassegnata, questo quasi disperato autoannientamento, questo cupio dissolvi, mette in crisi tutti: nessuno sembra cgliere la sottigliezza di questa reale rivoluzione: i due emarginati che lo ospitano, la figlia che trova con lui consonanze inattese, il figlio che lo fa cercare da un investigatore privato per sistemare una volta per tutte la successione.
La regia è sobria, cosi come i dialoghi e la recitazione di François Simon. Troppo reticente, fortunatamente troppo reticente: se il regista si fosse messo in testa di sostenere o spiegare una tesi qualunque, anche nihilista, avrebbe forse vivacizzato il film, ma lo avrebbe sicuramente snaturato della sua forza poetica. Solo l’inerzia passiva può redimere una vita intera sprecata nell’inerzia forzata.
Alla fine del film arriva l’ambulanza che condurrà il passivo Charles De in una clinica psichiatrica: là sicuramente, non certo nell’ordinata routine (svizzera!) da cui è fuggito, potrà continuare la sua ricerca interiore e purgarsi dalle ultime superfetazioni snaturanti,
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