Regia di Andrzej Wajda vedi scheda film
Nella primavera del 1940 - dopo l’invasione della Germania e lo sconfinamento dell’Armata Rossa che la Polonia subì nel giro di pochi mesi a distanza l’una dall’altro - quasi quindicimila soldati polacchi furono fucilati nelle foreste di Katyn, Tver e Kharkov. L’esercito nazista venne additato come unico colpevole per decenni, più precisamente fino al 1990, quando le autorità sovietiche ammisero per la prima volta che a commettere il crimine era stata la NKVD, la terribile polizia politica russa che aveva agito su ordine di Stalin e dei suoi compagni del Politburo del Partito Comunista. Katyn vuole essere un omaggio ai caduti polacchi che per quasi mezzo secolo rappresentarono un tabù inviolabile, e alle loro famiglie, tra cui quella dello stesso Wajda che perse il padre proprio nella terribile tragedia. Non solo, però. Lo sguardo del grande maestro, infatti, è rivolto in particolare alle nuove generazioni, quelle che – storicamente parlando – considerano il 2001 come l’anno zero e il crollo delle Torri come il big bang creazionistico, increduli persino del fatto che sia esistita una qualche forma di vita pre-cellulare (nel senso telefonico del termine, non biologico). Questo film è per loro, affinché sappiano associare Katyn non semplicemente a una semplice cittadina nei pressi di Smolensk ma, soprattutto, a qualcosa che ha segnato irrimediabilmente anche la loro di vita. Wajda torna dunque, ancora una vota, ad attingere a piene mani (d)alla storia del suo Paese che poi è anche la sua; e lo fa nel suo stile, onesto e partecipe, rinunciando ai toni accesi e polemici di chi è alla ricerca di una facile quanto sterile vendetta e con il distacco – critico, mai emotivo – che solo un doveroso quanto doloroso riesame storico può offrire, al di là di qualsiasi mistificazione ideologica. Perché (come certe cinematografie europee stanno riscoprendo) «non basta vivere, perdonare, sopravvivere».
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