Regia di Charles Chaplin vedi scheda film
All’inizio sembra il solito idillio fra reietti, come già Il monello e come poi Tempi moderni: anzi, lei non è solo una povera diavola che si guadagna da vivere a fatica, è addirittura una cieca (ossia, al suo confronto persino il vagabondo sembra un privilegiato) e quindi dovrebbe suscitare la compassione unanime. Ma guardiamola affacciata alla finestra del suo tugurio, mentre gli altri giovani escono a divertirsi la sera: chi può dire quali sordi rancori, quali frustrazioni, quali folli desideri di rivalsa cova dentro di sé? Il film, molto opportunamente, non ci rivela nulla sull’interiorità della ragazza (solo verso la fine, quando un bel giovane vestito con eleganza entra nel suo negozio per ordinare fiori, disilludendola, possiamo valutare la banalità dell’amore da lei sognato): preferisce concentrarsi sull’omino che se ne è invaghito, sui suoi sforzi generosi per aiutarla; preferisce, e non lo si sottolineerà mai abbastanza, farci ridere. Si ride per il miliardario che diventa generoso solo quando è ubriaco (immagine della sorte capricciosa che distribuisce i beni alla cieca), per le disavventure quotidiane del vagabondo (un solo esempio: la scena in cui scende dall’auto di lusso per contendere una cicca a un altro barbone, che lo guarda stupefatto); si ride per il match di pugilato malamente truccato, e solo quando l’omino non si rialza più siamo riportati alla dura realtà. Così arriva senza nessun preavviso quel finale, che la prima volta mi fece rimanere malissimo: adesso i ruoli sono invertiti, adesso è lei a poter fare l’elemosina al suo ex benefattore, ma non sa chi si trova davanti; lo capisce solo quando gli tocca le mani, grazie alla sensibilità tattile acquisita in passato. Quello scambio di didascalie “You can see now?” “Yes, I can see now” (ma solo con gli occhi, non più con il cuore), quel controcampo fra il viso di lei (stupore, delusione, imbarazzo, vergogna) e quello di lui (felicità pura): il lieto fine più terribile nella storia del cinema.
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