Regia di István Gaál vedi scheda film
GYÖKEREK. BÉLA BARTÓK 1881-1945 I-II-III
La consueta retrospettiva monografica che Trieste Film Festival dedica ogni anno ad una delle voci significative della cinematografia più spesso dell’est europeo, nell’edizione del 2008 ha avuto come protagonista István Gaál, il regista ungherese scomparso a Budapest nel settembre dell’anno passato. Radici. Il cinema di István Gaál è il titolo dato alla relativa sezione festivaliera, come pure al volume curato da Judit Pintér e Paolo Vecchi ed edito da Lindau.
Radici, Gyökerek, è anche il nome del complesso documentario a cui il cineasta lavorò fra il 1997 e il 2000. Béla Bartók ne è contemporaneamente l’oggetto e il soggetto. Il lavoro è strutturato in tre parti e dura in tutto circa 180 minuti.
Che si tratti di un documentario è fuori discussione. Il tessuto del film è ricavato esclusivamente dalle lettere e dagli scritti del musicista, senza che gli sceneggiatori – il regista stesso e Judit Várbíró – abbiano aggiunto alcuna considerazione. La pellicola da un lato è un insieme d’immagini e filmati d’epoca, dall’altro assembla riprese fatte da Gaál nella campagna e nelle foreste ungheresi, o in altri luoghi che videro ospite Bartók, alternate a momenti di esecuzioni musicali curate da artisti odierni. L’ascolto della narrazione in lingua ungherese aumenta, poi, la suggestione di stare assistendo ad una rappresentazione reale. La presenza del musicista incombe non come quella di un fantasma tornato da lontano, ma come una palpabile figura che si rivolge a noi per il tramite delle persone con cui aveva rapporti epistolari.
Detto questo, Gyökerek non ha nulla a che vedere con i cosiddetti Biopic, i lungometraggi biografici che portano sullo schermo la trasposizione cinematografica di un personaggio storico.
Al tempo stesso, però, le scelte dei testi, delle musiche e delle immagini vanno a confluire in un unicum unitario, il quadro d’insieme di una specifica visione appartenente al regista che ha voluto trasmetterla alla nostra attenzione critica. Se, pertanto, in nessun caso si potrà parlare di fiction, bisognerà, allora, introdurre concetti quali appartenenza, simbiosi, affinità dell’anima.
Ognuna delle tre parti del film, che segue un percorso cronologico, si apre con l’immagine della radice dell’albero, che non è una pianta specifica, ma sta ad esprimere un’idea che doveva innervare profondamente il regista. La prima scena ci mostra un’anziana contadina che sta facendo il pane in una sorta d'abbeveratoio in legno, lungo e profondo. Poi, vediamo decollare un aereo degl’inizi del secolo e dei buoi che trascinano un carro contenente un pianoforte a coda. Una singolare mistura di antico e moderno da un lato e di riferimenti artistici e contadini dall’altro. Col senno di poi, di chi ha visto tutto il documentario, si può affermare che già in queste poche immagini si coglie l’essenza di Gyökerek. La contraddittoria e lancinante natura di Béla Bartók è messa subito in evidenza per mezzo di un linguaggio allegorico che ben si addice ad un evento creativo, soprattutto se legato alla musica. Una sorta d'insieme sinottico inquadra immagini relative ai personaggi e alle opere di fine Ottocento, inizio Novecento, a significare come Bartók non fosse una meteora isolata dal resto del mondo, ma fosse particolarmente attento e sensibile a quello che accadeva attorno a lui. Fotografie di Wagner, Liszt, Brahms, Nietsche, riproduzioni di Monet, Renoir e altri pittori legati alla temperie impressionistica, fanno qui da cornice, preambolo ed epigrafe a quanto sta per seguire.
Allo stesso modo, in altre parti del documentario si alterneranno Debussy, Stravinskij, Schönberg, come altre personalità tragicamente protagoniste della storia della prima metà del secolo scorso.
Soprattutto a quel primo periodo risalgono le esperienze che portarono Bartók a fare con Zoltán Kodály dei lunghi giri alla scoperta dell’ignoto nella campagna ungherese: con l’aiuto di un grammofono raccolsero e poi annotarono un numero notevole di canti popolari dalla viva voce dei contadini. Il musicista conoscerà poi le popolazioni slovacche, valacche, rumene e viaggerà anche in territorio arabo a quello stesso fine. Quel farsi formica al fine di non disperdere un patrimonio che altrimenti difficilmente sarebbe arrivato sino a noi, servì in seguito al musicista, che attinse sempre a quell' inesauribile vena. Indipendentemente dal loro valore musicale, tutti quei lavori furono poi raccolti in una sorta di dizionario dei canti popolari. Ma questo legame non era motivato solo dalla natura di ricercatore che animava l’artista. Bartók non era un entomologo della musica, ma amava fortemente i contadini, in cui vedeva una verità e una freschezza che, invece, avevano, a suo avviso, abbandonato gli abitanti delle città, sui quali a più riprese egli espresse note di disprezzo. Questa sua avversione sembra nascere dai contrasti spesso accesi sorti fra l’artista e gli organi ufficiali della cultura. L’intellighenzia, che si vantava di difendere la tradizione lisztiana, in effetti tradiva lo spirito del maggiore musicista ungherese, poiché, con atteggiamento reazionario e conservatore, rigettava ogni innovazione. Nasce forse anche da qui la tendenza centrifuga di Bartók, che almeno in una circostanza – riportata nel documentario – confessò stanchezza e forse addirittura perplessità in questo suo adoperarsi nella raccolta dei canti popolari. Temeva che si trattasse solo di un succedaneo di qualcosa di cui si sentiva ingiustamente privato, ovvero una vita musicale veramente intensa.
Gaál sa estrarre sapientemente e fa risaltare questi elementi contraddittori, che, d’altra parte, sono testimoniati nelle opere di Bartók. Nella sua produzione si alternano frequentemente composizioni a carattere dotto in cui prevale la complessità della ricerca ad altre più distese e semplici, in cui, invece, spiccano gli elementi popolari. Il regista, poi, non si limita a far parlare il musicista; sentiamo Bartók, ad esempio, diffidare chicchessia dall’usare il suo nome per intitolare strade, piazze o altro, finché nelle stesse appaiano i nomi di Hitler o di Andrassy. Non di rado, poi, soprattutto nelle lettere inviate alla madre, ascoltiamo un Bartók che si lascia andare a considerazioni estemporanee. Ad esempio quando riferisce di sentirsi inebriato alla sua prima esperienza di volo o quando scopre la meraviglia di un bagno in mare e la dolcezza di camminare a piedi nudi sulla sabbia. Anche questi elementi, però, sono rivelatori della simbiosi di Bartók con l’elemento naturale, da cui non può distaccarsi. Ancora più di frequente sembra perdersi in notazioni legate alle foreste, a testimonianza di come quell’ambiente gli fosse connaturato. Non è una sorta di primitivismo mitico ed esteriore che si esprime in Bartók. In lui non c’è neppure il descrittivismo programmatico che ad esempio portò Richard Strauss a comporre brani come Also sprach Zarathustra o la Alpen Simphonie. Gli era connaturato, piuttosto, l’elemento panico, che Bartók cercò di fondere con la natura dotta della musica.
Dell’ultima parte della sua vita, quando le vicissitudini della guerra e la fama di cui cominciava a godere qualche frutto anche e soprattutto all’estero, portarono Bartók in America, Gaál sa ancora meglio far risaltare i duri contrasti, la stanchezza, la tristezza. Sebbene egli godesse oltreoceano di qualche riconoscimento, avesse a volte a disposizione orchestre valide e avesse fatto conoscenza di musicisti in grado di eseguire egregiamente le sue musiche, gli Stati Uniti rappresentavano per lui un elemento estraneo e da questo stato ben presto scaturì una profonda nostalgia. In questa circostanza il regista si limita ad accompagnare le parole cupe di Bartók con ampi squarci sul fermento cittadino, con riprese dal basso dei grattacieli che tolgono il respiro e fanno pensare alle sbarre invalicabili di una prigione.
La proliferazione irregolare dei globuli nel sangue, con eccesso prima dei bianchi, poi di quelli rossi, lo portò alla morte per leucemia nel 1945. Bartók sarebbe voluto tornare nella sua terra, ma sia gli esiti incerti della guerra, sia la preoccupazione per le sorti dell’Ungheria sulla quale premeva l’Unione Sovietica, sia le sue condizioni fisiche glielo sconsigliarono ed egli concluse la sua vita di nomade esiliato proprio nella città che meglio esemplificava la tragedia della sua estraneità, New York.
Ancora una volta Gaál fa un uso magistrale della pellicola per dipingere questa fine, che rimane solo intuita sullo sfondo. Il regista sembra entrare nello spirito di Bartók, ripercorrendo a ritroso i momenti significativi, gli aspetti capitali della sua vita ed esemplificativi della sua natura. Sullo schermo scorrono di nuovo le immagini dell’inizio, in ordine inverso però, come pare accada a chi in fin di vita ne ripercorre in un attimo le tappe salienti. Da ultimo, la donna che impasta il pane, con un processo su cui le parole del musicista si soffermano a lungo. Gaál sceglie questo finale ad insistere simbolicamente sull'importanza di un lavoro che si protrae ininterrottamente da secoli e in cui viene sancito un patto di continuità, utilizzando sempre un po’ dell’impasto della volta precedente. Le mani della donna trasmettono il calore che dà la vita e s’incorpora al nostro pane quotidiano. Le radici penetrano sempre più a fondo.
Così era la visione d’insieme che Bartók aveva della musica; studiò a fondo il Cinquecento e il Seicento, aspirando a cogliere i segreti dei musicisti che, a loro volta, erano risaliti alle fonti precedenti, mentre tralasciò quelli che egli riteneva avessero deviato da quella strada maestra.
Enzo Vignoli
23 agosto 2008
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