Regia di Darnell Martin vedi scheda film
Questo è uno di quei film destinati, almeno qui in Italia, ad avere un percorso molto breve ed una visibilità pressochè nulla. A chi può interessare, infatti, una pellicola che evoca l'epopea della gloriosa etichetta discografica di Chicago "Chess Records"? Esclusivamente agli appassionati di musica nera e rock'n'roll, questa è la risposta. Che non credo siano in numero tale da decretare il successo di questo film. Quando ho saputo che nella mia città veniva proiettato "Cadillac Records" non ho avuto alcuna esitazione a correre a vederlo appena ho potuto farlo, consapevole che la permanenza in sala avrebbe avuto un ciclo piuttosto breve. Intendiamoci, non si tratta di una "perla rara" di film, anzi come biopic è piuttosto convenzionale, e anche la chiave narrativa è tutto sommato scontata. Insomma, è un classico tributo a dei miti musicali, raccontato con garbo e con gusto, ma non è questo il punto. Come prima cercavo di argomentare, chi andrà a vedere il film sarà in prevalenza l'appassionato di musica rispetto a quello di cinema. Ma se sei un amante del soul, rhytm'n.blues e del rock'n'roll delle origini, questa pellicola può anche farti esaltare, benchè come film sia poco più che rilevante. Si tratta della storia di una profonda e singolare amicizia nata tra un bluesman nero proveniente dalle piantagioni del delta del Mississippi e un produttore-manager bianco di origini polacche. I loro nomi sono scolpiti nella pietra della Storia della Musica: Muddy Waters e Leonard Chess. Da questo sodalizio umano ed artistico nacque la leggendaria "Chess Records", dai cui gloriosi studi passarono nomi che sono entrati nel mito della musica di tutti i tempi: Little Walter (l'armonicista irrequieto e ribelle), il poderoso Howlin' Wolf (una voce fieramente potentissima da far impressione), la tormentata Etta James, e il "godfather" del rock'n'roll, colui che ne cambiò per sempre il volto, Chuck Berry (di cui peraltro non vengono taciute nel film le note propensioni sessuali per le fanciulle minorenni). Per me è stata un'esperienza coinvolgente, mi sono sentito fremere vedendo rappresentati sullo schermo alcuni dei miti che hanno posto le basi della mia formazione musicale. Tuttavia ciò non mi esime dal rilevare la limitata portata dell'opera dal punto di vista cinematografico, è chiaro che non si tratta di uno di quei film destinati a lasciare tracce importanti. E questo perchè in fondo la regista Darnell Martin (peraltro autrice anche della sceneggiatura) pur svolgendo un lavoro sincero e appassionato (e lo si intuisce), non riesce a conferire spessore all'opera, che resta una passerella di tanti nomi celebri, tante "figurine" raccontate senza riuscire ad esprimerne con sufficiente intensità la personalià e la forza interiore. Ci si affida troppo alla convenzione. Basti pensare a come viene messa in scena la grande Etta James: non nego che questa sia la sua vera storia, ma il suo travagliato percorso umano-artistico viene narrato in modo così tipico e scontato da suscitare il sorriso. E inoltre certi temi sociali, quali ad esempio il feroce razzismo che allignava in quegli anni in America, o certi mutamenti culturali che stavano investendo un'epoca caratterizzata da profonde trasformazioni, qui vengono appena sfiorati e restano comunque sullo sfondo senza essere sviluppati. Se tutte queste piccole "colpe" sono da addebitare alla regista, nulla da eccepire invece sul cast, nel cui ambito ogni attore mette il proprio talento al servizio del mito musicale che rappresenta. Adrien Brody è quindi un perfetto Leonard Chess, unico bianco in un mondo di musicisti neri, un bel ritratto di questo discografico davvero appassionato, non uno "squaletto" insomma, ma bensì un sincero scopritore di talenti, mostrato però anche nel suo lato umano non privo di debolezze. Non gli è da meno Jeffrey Wright, che sfodera tutto il suo carisma per dare vita a quell'autentico gigante che è stato Muddy Waters. Da segnalare poi la curiosa e strepitosa somiglianza fra il volto del noto rapper/attore Mos Def e quello di Chuck Berry, come a dire che nessun altro avrebbe potuto interpretare quel ruolo se non lui. In fondo al film, quasi a segnare il tramonto di un'epoca (e di un'etichetta) per fare spazio a successive evoluzioni e tendenze del mercato discografico, si intravede l'avvento di Elvis Presley e dei Rolling Stones. Come prevedibile, diversi i "numeri" musicali in cui gli attori se la cavano piuttosto bene, alle prese con brani che sono ormai dei superclassici senza tempo. Due curiosità. Prima di tutto ci si chiede il motivo della scelta di ignorare del tutto l'esistenza del fratello di Leonard Chess, che pure fu nella realtà co-fondatore dell'etichetta Chess. Poi da citare l'episodio, già noto agli appassionati, della causa vinta da Chuck Berry contro i Beach Boys, colpevoli di avergli copiato la sua "Sweet Little Sixteen", ribattezzandola "Surfin' U.S.A.". Superfluo sottolineare l'importanza anche sociale della creazione della Chess Records: pensiamo infatti all'impatto culturale di una musica di matrice nera, eseguita da musicisti neri, che, in epoca di segregazione razziale, sfondò anche tra un pubblico di bianchi. Ed è perfino ovvio ricordare come ciò aprì di fatto la strada a successive memorabili avventure che portano i nomi immortali di "Stax" e "Motown". Concludendo. Il film è un sincero e appassionato omaggio ad una epopea strepitosa e irripetibile, ma presenta un difetto di fondo che non si può ignorare: un film che parla di "Blues" DEVE essere potente e "SPORCO". Mentre questo è, al contrario, troppo convenzionalmente patinato. Tutto qua.
Voto: 6
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