Regia di Gabriele Muccino vedi scheda film
Forse fa il lavoro più odiato del mondo, perché recupera le tasse non pagate, ma si capisce subito che Ben (Will Smith) è un buono. Pure troppo. Si concede anima e corpo al prossimo, in particolare aiutando un centralinista cieco che suona il piano (Woody Harrelson) e una fanciulla cardiopatica che aspetta un cuore nuovo (Rosario Dawson). Per loro, e per altre cinque anime “meritevoli”, l’uomo è pronto all’olocausto di se stesso, come estremo gesto di espiazione. Ambiziosa opera seconda di Gabriele Muccino a Hollywood dopo La ricerca della felicità, ancora con il divo Will Smith protagonista e produttore (ma della cordata di finanziatori fa parte anche Domenico Procacci). Si capisce bene perché il regista italiano abbia sfondato negli Stati Uniti. È tecnicamente capace ma senza una personalità specifica, si inserisce perfettamente nel solco della nuova autorialità fatta di meccanicismi narrativi e intensità patinate. Sette anime è l’ennesima conferma della morte definitiva di una certa tendenza del cinema americano, quello antropocentrico della classicità o quello umanista e titanico dei Cimino, dei Milius, dei Coppola, dei primi Scorsese, Spielberg e De Palma. La complessità epica è ormai demandata alla fiction Tv, dove anche personaggi estremi e improbabili come i mafiosi dei Soprano o i pubblicitari di Mad Men paiono più veri del vero, e al grande schermo non resta che l’artificio della struttura a ritroso, a scarto, a enigma, a flashback, senza alcuna autenticità nella resa dei caratteri. Muccino come Shyamalan, Paul Haggis, Bryan Singer, Iñárritu, Christopher Nolan... Persino come l’ultimo Martin Scorsese, che essendo il migliore, con The Departed ha dimostrato di saper essere anche il peggiore. Visioni e opere perfette ma senz’anima, posticce come le cornee nere di Harrelson o le cicatrici solo esteriori sul petto della Dawson. Pre-visto in ogni sdrucciolamento emotivo, Sette anime soddisferà chi si compiace della «bella fotografia» e dei «bravi attori» ma è suo malgrado il triste epitaffio del cinema (americano) che fu.
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