Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film
L’amore è follia, durante e dopo. Ma forse lo è anche prima, quando l’animo si prepara, irrazionalmente, e inconsciamente, a vivere dei (nei) sogni dell’altro, e a non poterlo impedire. Dobbiamo perderci, per poter trovare l’altro da noi che, sorprendentemente, ci completa come in un gioco ad incastro. Dobbiamo essere fuori da noi per la gelosia, o per l’infelicità, dobbiamo desiderare disperatamente di strappare il nostro essere da una situazione che ci rende schiavi, perché l’istinto della fuga ci travolga, e ci predisponga, con la sua ebbrezza, ad accogliere qualunque occasione ci venga incontro. I cuori e le menti dei due protagonisti di questa storia sono incatenati prima ancora che questi si conoscano: lei esegue, da sonnambula, le azioni che lui compie in sogno, e così, entrambi, obbediscono, con i gesti o col pensiero, ad un imperscrutabile potere soprannaturale che li vuole uniti. Per l’ennesima volta, Kim ki-duk identifica la spontaneità del sentimento con la sua anormalità, che lo sottrae ad ogni regola, e in questo modo lo rende incontrollabile, e dunque puro, totalmente in grado di autodefinirsi, senza bisogno di giustificazioni esterne. La dimensione che gli assegna è l’assoluto, che significa anche trasversalità, indifferenza rispetto alle categorie terrene, alle distinzioni logiche, alle separazioni spaziali e temporali. La sua emozionalità smaltata, dipinta con colori vivaci come un disegno infantile, è la delicatezza dello spirito a cui la forza della trascendenza conferisce una carica violenta, che attraversa la realtà come un lampo incandescente. La verità sussurrata ha, in realtà, una voce profonda e tonante, che quasi sempre le circostanze ci costringono a reprimere, ma che rischia di esplodere da un momento all’altro. Tenerla a bada, talvolta, implica un titanico sforzo di volontà: essere ragionevoli, contenere la passione, può comportare un vero e proprio atto di masochismo, come lo è qualsiasi iniziativa mirante a sciogliere un legame che sia indissolubilmente impresso nella carne. Per lui, l’unico modo per staccarsi da lei è rinunciare a dormire, minando irrimediabilmente la propria integrità fisica; per lei, l’unico rimedio all’insanabile ossessione è il sacrificio, la segregazione autoimposta, l’esilio. Kim ki-duk ci conduce attraverso questo cammino doloroso con mano leggera, si direbbe fiaccata dalla stanchezza o, forse, semplicemente, ammorbidita dalla compassione; e se, a tratti, regia e sceneggiatura sembrano smarrirsi per strada, volersi insabbiare, abbandonarsi ad un senso di inutilità ed impotenza, lo spettatore non può che partecipare al disorientamento derivante da un rapporto tragico che, una volta tanto, è tale non perché impossibile, ma perché inevitabile.
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