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Me and Orson Welles

Regia di Richard Linklater vedi scheda film

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Marcello del Campo

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La recensione su Me and Orson Welles

di Marcello del Campo
6 stelle

 
 
12 novembre 1937. “IL BARDO FA CENTRO”, scrive a titoli cubitali Variety. La sera prima, al Mercury Theatre di New York è andato in scena Caesar, un adattamento ‘scarno e brutale’ di Orson Welles dal Giulio Cesare di Shakespeare, dopo sette giorni di prove estenuanti e di litigi tra il ‘genio’ e il produttore John Houseman. “Allestita in abiti moderni, con allusioni alla politica contemporanea (per esempio, saluti fascisti e illuminazioni ‘alla Norimberga’), senza scenografie e senza intervalli, questa è la prima produzione del Mercury Theatre.” (Peter Bogdanovich, Io, Orson Welles). Anche il New York Post è entusiasta: “Nella sua diretta semplicità, questa scena raggiunge la meravigliosa libertà d’un palcoscenico elisabettiano.”
In questo evento particolare, ma già solennemente anticipatore della vita avventurosa del Welles regista cinematografico, Richard Linklater inserisce la vicenda della breve stagione ‘artistica’ del giovane Richard Samuels che a Welles si accostò, restandone abbagliato al punto di rinunciare alla propria vocazione teatrale.
Me and Orson Welles, tratto da un romanzo di Robert Kaplov, sceneggiato da Holly Gent Palmo (anche co-produttore), racconta la storia immaginaria di un Wilhelm Meister newyorkese, che ha molta assonanza con l’opera incompiuta di Goethe. Come Wilhelm, Richard è affascinato da un teatrino di burattini (nel film: Welles e la sua compagnia teatrale) che vestono i panni di Saul, Davide, Golia ecc. (il teatro scespiriano). Due amori spingono il giovane a frequentare il Mercury, quello per l’affascinante Sonja Jones, ambiziosa organizzatrice del gruppo e quello per Welles che, per capriccio, lo ha invitato a fare parte del cast del Cesare.
Abbagliato da un mondo fino allora inattingibile, il cucciolo-artista entra in un gioco più grande di lui. Un mondo si apre inaspettatamente ai suoi occhi, un mondo si chiude, infine, riportando le sue ambizioni alla pacata quiete della normalità.
Richard è sottoposto, senza rendersene conto, alla volubilità del genio e delle donne. La parte che Welles gli ha affidato, suonare con l’ukulele una canzone che accompagni l’immensa performance di Bruto-Welles, è l’equivalente del fool nel teatro del Bardo; gli appuntamenti di Sonja, le promesse d’amore sono parole scritte nel vento dalla scaltrezza di una donna che tiene al guinzaglio l’innocenza, intanto che briga ad arte per convogliare a nozze con il tycoon David O’Selznick.
Richard, infine, è felice per avere tratto esperienza sull’arte e sulla dissimulazione, a contatto con personaggi del calibro di Joe Cotten e George Coulouris, di avere fatto amicizia ed essersi divertito alle boutade e alle prodezze di Norman Lloyd, soprattutto di avere sfiorato l’algida bellezza di Muriel Brassler, l’amante di Welles.
Ora Richard può ritornare il sempliciotto dell’high school: per strada, per caso, lo aspetta la mite artista Gretta Adler che, come lui, cerca l’itinerario artistico della vita.
Me and Orson Welles, partito come un film sull’apprendistato, si trasforma, dopo un quarto d’ora in un pretestuoso minibiopic sul regista di Quarto potere. L’alone di genialità che circonda il ventiduenne futuro ‘genio’ mi sembra cronologicamente troppo maturo: Welles nel 1937 era ritenuto un geniale guastafeste, spirito bizzarro, uomo egotico, enfant gâté che aveva atterrito l’America con la falsa notizia dell’arrivo dei marziani, ma era ancora lontano dai fasti, dalla celebrità e dalle peregrinazioni. Né soddisfa la performance (che molti hanno ritenuto degna dell’Oscar) di Christian McKay, non perché questi abbia visibilmente il doppio dell’età di Welles all’epoca in cui si svolge il film, quanto per la qualità mimetica dell’interpretazione, poiché, negata dalla regia di Linklater l’idea che la verosimiglianza sia l’unica strada percorribile nel dare vita a un personaggio inimitabile, tutto lo sbracciarsi, lo sbarrare gli occhi esoftalmici, lo svolazzare con il cappotto a falde rialzate di McKay fanno scivolare Welles nella macchietta, secondo un’iconografia legata a Harry Lime che a lungo il grande regista fu costretto a subire. Che la maggiore preoccupazione di Linklater sia la corriva imitazione dei volti della troupe del Mercury, lo rivela ancora di più la somiglianza perfetta dell’attore James Tupper con Joseph Cotten, un sosia perfetto.
In tutto il film è presente il ‘demone della copia’: ricostruzioni storiche perfette, colonna sonora ellingtoniana-gershwiniana, aria del tempo scandita nel trionfo del tip tap.
 
 

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