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Amore che vieni, amore che vai

Regia di Daniele Costantini vedi scheda film

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La recensione su Amore che vieni, amore che vai

di LorCio
4 stelle

Se volessimo intraprendere un discorso filologico, dovremmo perfino contestare il titolo del film. Se volessimo contestualizzarlo all’interno del discorso generale, ci accorgeremmo ben presto che Amore che vieni amore che vai c’azzecca poco con il filone della musica genovese del De André degli anni sessanta. Scritta sì in quel decennio e probabilmente a Genova, è una canzone dal significato talmente universale che trasversalmente solo può toccare il tema del film. Non ho letto Un destino ridicolo, e da deandreano quale sono da una vita dovrei rimediare, ma credo che come tutti i cantautori passati alla narrativa (penso a Guccini e Ligabue, ma anche Vecchioni) il discorso intrapreso sia diverso da quello musicale. Se un cantautore si presta alla scrittura lo fa perché una canzone non gli basta più per dare voce alle diverse sensazioni che vuole trasmettere agli altri. E quindi contaminare il De André romanziere con quello musico non è stata forse la cosa migliore da fare. Generalmente la contaminazione, se intelligente, stuzzica, e anche molto. Ma quando è pressappochista e superficiale può solo seccare.

 

Amore che vieni, amore che vai si sarebbe potuto chiamare più logicamente La città vecchia o Via del campo, visto che l’ambientazione scelta è la Genova degli ultimi che tanto sapeva decantare bene il caro Fabrizio. Amore che vieni amore che vai è una canzone fin troppo universale per un contesto così particolare come quello del film. E se vogliamo essere pignoli anche il tema universale di quella splendida canzone c’entra pochino con la storia. Questo film corale e irrisolto, da cui De André, il più grande poeta italiano del secondo novecento secondo Fernando Pivano, non ne esce bene, ha più di un difetto di distrutta (forse l’intero film è un difetto – non totalmente brutto, ma come se fosse un neo in una persona non bella identificabile nella razza, variegatissima, dei tipi) e le motivazioni vanno individuate in tre cose ben precise. Innanzitutto una sceneggiatura buttata lì senza troppi pensieri, quasi sentitasi protetta dal nome tutelare del cantautore per impegnarsi in un qualcosa di approfondito o se non altro intrigante. Poi la regia, probabilmente inadeguata, di Daniele Costantini, persa nell’orchestrare un coro di attori svogliati e mal assistita da una fotografia a dir poco calligrafica e per di più di maniera (un po’ coi colori pop del decennio esaminato e un po’ con le tinte intense di certa pittura nostrana).

 

E infine i già citati attori, che non hanno potuto contare su dei personaggi credibili, ma solo su figurine ispirate qua e là non solo al romanzo a cui si ispira il film ma anche a canzoni vere e proprie (Claudia Zanella che si atteggia a Bocca di rosa è l’esempio lampante). Vada per uno sciapitissimo come non mai Massimo Popolizio e un Fausto Paravidino fuori parte, ma Tosca D’Aquino o Donatella Finocchiaro, pur brave, non hanno le facce giuste. Nicola Piovani infila una delle sue partiture più ridondanti, immemore dello stupendo lavoro eseguito con il De André di No al denaro, no all’amore né al cielo (su tutte Un ottico e Il suonatore Jones) e di Storia di un impiegato (il concept album che contiene la mia canzone di Faber del cuore: Verranno a chiederti del nostro amore). Un film superficiale ed approssimativo, che non appassiona e lascia l’amaro in bocca. L’incontro felice di De André col cinema non è ancora avvenuto – se pensiamo poi a come una sua meravigliosa canzone come Smisurata preghiera sia finita in un film come Ilona arriva con la pioggia – e Amore che vieni amore che vai, oltre ad essere un film mediocre, è un film sbagliato. Una storia sconclusionata, una storia sbagliata, per dirla alla Faber. De André al cinema, per ora, non si tocca.

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