Regia di Clint Eastwood vedi scheda film
Walt Kowalski, reduce della guerra di Corea degli anni ’50, è un anziano che dopo la morte della moglie rimane solo. In realtà avrebbe dei figli e dei nipoti, ma sono troppo impegnati per dargli conforto e compagnia, anche se ogni tanto si fanno vivi, ovviamente per i propri tornaconto; anche il quartiere è ormai popolato solo da asiatici immigrati per i quali Walt non prova simpatia. Quasi per caso Kowalski familiarizza con la famiglia di Hmong con cui i rapporti si faranno sempre più stretti…
Clint Eastwood conferma la curiosa sproporzionalità del suo essere autore e del suo essere attore. Non che Eastwood reciti come un cane, per carità, ma contrapposta alla magnificenza registica, la sua prova “senza sigaro” di per sé pare indecorosa. Oltre che produttore, Clint Eastwood è il regista di una pellicola che ha pochi ma fortissimi temi: l’integrazione razziale, il valore della famiglia e delle sue tradizioni, il rapporto con l’aldilà. Tutti temi sostanzialmente già appartenenti al cinema dell’autore statunitense, ma che qui trovano uno straordinario equilibrio, delineando un personaggio, quello del vecchio Walt, devastato dagli orrori della guerra, anche se quasi inconsapevolmente.
Più in generale, il rapporto tra ipotesi e tesi, tra preconcetti ed effettività, tra ideale e reale sono fragorosamente stridenti e raccontano dell’evidente cagionevolezza umana e della sua intrinseca, ontologica fragilità. E intanto Dio sta sopra tutto e tutti, guarda immobile (anche se ogni tanto invia il suo messaggero, padre Janovich) e sorride, divertito del fatto che uomini come Walt debbano necessariamente rivedere il proprio pensiero, proprio allorquando ritenevano di aver capito tutto. Il protagonista vive una catarsi, un cambiamento progressivo, da inguaribile razzista a difensore estremo di una minoranza asiatica, con una progressione dall’andamento rossiniano.
Nonostante non sia il miglior film di Eastwood, indubbiamente si tratta di una delle sue pellicole più rappresentative; pazienza per alcune défaillance stilistiche nella scrittura (nulla è lasciato all’interpretazione, per cui la volontà della nipote di ottenere la Gran Torino, oppure le telefonate “interessate” dei figli di Walt vengono veicolate in maniera smaccata, laddove un maggiore allegorismo avrebbe giovato). Come per il gemello di quattro anni precedente “Million dollar baby” il tutto culmina in un finale stentoreo ed emozionante.
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