Regia di Clint Eastwood vedi scheda film
Un vecchio rompiscatole, fissato con i suoi ricordi da reduce di guerra come neanche John Goodman ne Il grande Lebowski, resta vedovo: figli, nuore e nipoti lo considerano impresentabile, i vicini di casa asiatici lo guardano come una strana bestia, il prete cerca di convertirlo. Eastwood, in quella che sembra destinata a rimanere la sua ultima interpretazione, rifà un altro personaggio nel vecchio stile Callaghan (la battuta “Avete notato che ogni tanto si incontra qualcuno che non va fatto incazzare? Ecco, quel qualcuno sono io” fa degnamente il paio con quella su “noi tre: me, Smith e Wesson”), ossia un lurido razzista che progressivamente si umanizza; poi lo fa morire, con una sorta di sacrificio rituale che mi ricorda quello di Allen in Scoop. Il film è una parabola, toccante e divertente allo stesso tempo, sul superamento delle proprie paure e sull’accettazione delle diversità; un po’ troppo diluito nella parte centrale, dove Eastwood diventa quasi una balia asciutta per il ragazzino, si risolleva in un finale che spiazza e che è il più giusto possibile. Con una morale niente affatto trascurabile: a volte un uomo disarmato ottiene più di un uomo armato.
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