Regia di Clint Eastwood vedi scheda film
La non-conoscenza è la madre di tutti i pregiudizi e di tutte le violenze. Chi non conosce a fondo il cinema di Clint Eastwood può solo proferire ridicole sentenze. Per l’Ispettore Callahan veniva tacciato di fascismo, e forse non tutti sanno che il regista del film, Don Siegel, era un rappresentante della sinistra militante americana. I due insieme gireranno ben cinque film, cinque capolavori. Un sodalizio che va oltre lo schieramento politico e dove già il Clint-attore è da tempo autore di se stesso e partecipa con il suo segno fisico all’anima dei film. Callahan è il ribelle per antonomasia, nonostante non appartenga ai film “alternativi” che pretendono di dire molto ma che non concludono nulla. E come lui, pure il genere western viene visto o come un genere d’antiquariato o come epressione della politica fascistoide dell’America. Nulla di più falso. Parafrasando i fratelli Cohen, il western “non è un genere per vecchi”. É giovane per antonomasia perchè elementare nelle sue direzioni, perchè è ribelle, racconta di vagabondi, di eterni adolescenti che amano il viaggio, le notti intorno a un fuoco, le donne e i cavalli, e poi è giovane perchè è movimento puro, originale: l’equazione di Bazin insegna. Inoltre nel western si celebra la linearità dell’uomo in natura, alle prese con la vita e la morte in uno psicoluogo ostile, dalla natura acerrima, dove tutto si misura virilmente, ma non necessariamente in modo totalitario, e l’antieroismo dei western anni ’70 è lì a dimostrarlo. Callahan e il cavaliere pallido sono nel mirino di politici buonisti, di mollaccioni tutti casa e partito, per non dire di come molti razzisti e armaioli di tutto il mondo li prendevano come emblema del macho bianco, violento e benedetto da dio. Anche questo, nulla di più falso. Tutti, dico tutti, devono fare i conti con Clint Eastwood, la coscienza critica dell’America, ma oserei dire anche di tutto il mondo occidentale. Lontano dei cerebralismi intellettualoidi del cinema schierato europeo. Senza tutti i versi, un giorno poi databili, delle avanguardie. Clint fa spallucce davanti al botteghino e ai premi. Ringrazia per i riconoscimenti, ma va per la sua strada. Indomato. É un mustang. Clint Eastwood ha attraversato la mia vita come Henry Fonda la main-street di Tombstone in “Sfida Infernale” di John Ford.
Questo piccolo film, girato in tempi record con la solita squadra collaudata da anni, Joel Cox al montaggio, Tom Stern alla fotografia, Kyle Eastwood alle musiche orchestrate da Lennie Niehaus, Steve Campanelli alla camera e Buddy Van Horn alle controfigure, è il film che prima o poi doveva arrivare. Prima o poi Clint ci avrebbe messo la faccia. Ha radunato per l’occasione del capolavoro l’ispettore Callahan, il William Munny de “Gli Spietati”, lo straniero dei film di Sergio Leone, il Frankie Dunn di “Million Dollar Baby”, il Red Garnett di “Un Mondo Perfetto”, il Terry “cuore di donna” McCaleb di “Debito di Sangue” e l’innamorato Robert Kincaid de “I Ponti di Madison County”. Ma anche il rude Gunny, Bronco Billy e il testardo Ben Shockley di “Un Uomo nel Mirino” sono stati chiamati e messi lì, sul pátio da cui lo scontroso Walt Kowalski siede solitario a bere birra e a guardare la sua Ford Gran Torino del ’72, mentre il giorno tramonta. Clint Eastwood abbatte così ogni frontiera possibile. Il lontano ovest dei celebri western, i confini verticali dei grattacieli metropolitani da cui sparava e uccideva il folle Scorpio e infine lo spazio profondo sognato da una vita in “Space Cowboys” lasciano il posto al confine che non avresti mai creduto di dover superare: il tuo giardino. Fulcro centrale della cultura americana che conta, quella sana, e con essa di tutta la narrativa di viaggio, è la trasgressione della frontiera. Qui tutto è riportato alle dimensioni domestiche, alle frontiere fisiche del quartiere e ai confini ineffabili ma ugualmente riconoscibili delle diversità culturali. E non è un caso che il film inizi con due abitazioni in cui in una, quella del protagonista very wasp (White Anglo Saxon Protestant) nonostante le origini polacche, si celebri un funerale, mentre nella casa dei vicini cinesi, etnia Hmong, si celebri un battesimo. Quasi a dirci: nella diversità la vita, nella conservazione la morte.
Inutile perdersi nella trama. Inutile perdersi nei discorsi. Ci sono, certo, e sono lì, chiari e precisi, puntuali come sempre nei film di Eastwood. Sono lì, abbagliati da una bellissima fotografia secca. Si ride, si piange, ci s’incazza e si ha pure il tempo per sperare in un mondo migliore, o “perfetto” per dirla come Red Garnett. “Gran Torino” è soprattutto, al di là di tutte le riflessioni possibili, la celebrazione di un carattere. Essere attore lontano dai canoni delle scuole più raffinate, dagli accademismi, dai versi dei metodi più complicati e articolati, è essere attore autentico e viscerale, un attore di terra. Un attore che punta tutto sul proprio segno, il proprio fisico, la propria maschera. Clint Eastwood celebra l’uomo eastwoodiano raccontato in tanti film e lo fa con la scorza dura dell’individuo solitario, etico, umanista, contradittorio, perchè ci sono più cose tra cielo e terra. Anche a questo giro i baluardi istituzionali escono con le ossa rotte. La Famiglia è un crogiolo di vipere che vive di ambizioni capitalistiche e di nient’altro con figli interessati solo all’apparenza e alla futilità, la Chiesa pretende di dare solo risposte studiate sui libri dei seminari e chiede all’Uomo di crederci e basta senza fare discussioni, la Politica integrazionista dei buongoverni fa acqua da tutte le parti e i quartieri si popolano di gang etniche che giustamente, rifiutati dal Paese ospite, non possono fare altro che delinquere. La Detroit in cui Walt Kowalski ha il suo quartiere sembra la periferia di tutto il mondo cristiano, eternamente in guerrilla con se stesso.
Per Eastwood prima di Dio, prima della Patria, prima del Benessere, c’è solo l’Uomo. Attraverso i suo personaggi rudi che masticano odio, il gran regista ci parla di amore sociale. Ci parla dell’orrore della guerra, della stupidità della conservazione (lui bandiera della destra americana), ci parla dell’arroganza del potere e della cultura machista tutta muscoli e pistole. Il gran turpiloquio che si fa dal barbiere in quel siparietto maschilista divertentissimo non è educazione machista, è semplicemente la sua parodia. Clint prende per i fondelli gli esibizionisti della virilità, del machismo tutto wasp o tutto latino, e li fa scontrare con il suo essere Uomo, con le sue pose indimenticabili, con quella faccia da rock che veicola tutta la semplicità della dignità stoica degli uomini veri, non quelli che ostentano arroganza e violenza, ma quelli che ringhiando vanno per la propria strada. Abbatte in un colpo tutti i muscle-movies degli anni ’80, quelli dell’edonismo reaganiano che lui stesso aveva sostenuto politicamente. Fa un un gran fascio di tutte le armi che gli americani usano nei loro giorni di esaltazione paramilitare, in una mano la bibbia e nell’altra il fucile, e dà loro fuoco. Sprona il ragazzino Hmong, il tenero Bee Van, a trovarsi una ragazza, ad essere più uomo, ma non gli leva di mano i libri che legge, non gli dice di andare a rompere il culo a qualcuno, gli dice solo di trovarsi un lavoro, di essere onesto e corretto. Qui il cerchio si chiude. La non-conoscenza che prima obbligava tutti a stare nel proprio giardino e a guardarsi in cagnesco ognuno forte della propria fottuta verità di appartenenza, si sbricciola di colpo e diventa conoscenza pura, fatta con le gambe sotto al tavolo, fatta durante un barbecue, un lavoretto o una bevuta insieme. I confini vanno superati. Le strade vanno percorse. La gente va conosciuta. Non bisogna aver paura degli stranieri. Non bisogna dare retta ai politici e alla loro semina di paura e terrore. Bisogna invece aver paura della gramignia che cresce nel proprio giardino, quello bello e curato, con i nanetti a guarnirlo, con la bandiera nazionale che ci sventola sopra. Bisogna aver paura delle ortiche che ti crescono in casa tra parenti e figli che convivono senza un vero legame affettivo, senza alcuna affinità elettiva, atomi impazziti rinchiusi nello stesso crogiolo infetto. Infettato dall’onore, dalla facciata da preservare, dall’arroganza del lusso, del privilegio e dei favori di casta. Infettato dalle religioni per cui è meglio una famiglia disgraziata perchè è famiglia, piuttosto che una enucleazione non tradizionale dove però si vive in pace e in armonia.
L’umanesimo di Clint Eastwood trova in “Gran Torino” l’applicazione definitiva. Non c’è pace per Walt Kowalski fino a che non sarà lo stesso vecchio grugnoso razzista a deporre l’ascia di guerra e a dimostrare davvero l’uomo che è, e a dimostrare che prima di tutto viene l’Uomo e nient’altro. Un po’ come il Gene Hackman de “L’Ultimo Appello”: è l’educazione all’odio che trasforma ogni uomo in uomo peggiore. É il Paese, è la religione, sono le scuole, le leggi, le consuetudini di un popolo con l’arroganza di essere il popolo prescelto, il metro di misura con cui giudicare gli altri popoli, che permettono ad un essere umano di cadere nel buio della menzogna. Mentre invece è l’incontro con la diversità, la tolleranza di mondi diversi, di maniere diverse di vivere, l’accettazione della varietà, a far diventare un uomo un uomo migliore. Ma tutto questo percorso umanista non è raccontato con i buonismi e le traiettorie edulcorate della classe dominante, bensì con un antieroe pronto al bene quanto al male, se davvero questa dicotomia esiste (io non ci credo). Non solo l’educazione all’odio, ma anche l’educazione e l’abitudine alla sopraffazione di classe trasformano un uomo in un vigliacco. La scalata sociale fatta di belle macchine, belle donne, belle ricchezze e quant’altro sono gli status symbol di una (de)generazione inquietante che il grande Clint ancora ci sbatte davanti agli occhi, e che alla fine non godrà di quella Ford Gran Torino del ’72, simbolo di innocenza non perduta. Se il William Munny de “Gli Spietati” era ormai perduto definitivamente, il Walt Kowalski di questo ultimo capolavoro non permetterà che il giovane Thao si perda e corrompa come lui che ha fatto la guerra in Corea e ha preso una medaglia per aver ucciso un ragazzo di diciassette anni. Quel mondo da vecchio testamento e di teste spaccate deve finire, dice Clint, e lo dice con l’istintività e la forza di un film rapido, di un carattere leggendario che per tutto l’arco della pellicola celebra un personaggio che mai nessuno sarà più in grado di restituirci sul grande schermo. Ci sono scene che già sono antologizzate nei nostri cuori come quella del furgone, quando il vecchio Kowalski aiuta la ragazza Hmong da un gruppo di teppistelli di colore dove l’ironia del grande pistolero ridefinisce l’audacia dell’Ispettore Callahan, e i tre negretti se la fanno sotto, compreso il bianco pallemosce che non è altri che Scott Eastwood, figlio di Clint. Ma la scena che tutti aspettiamo con il cuore in gola pronto a saltarci in mano è il duello finale, di notte, davanti alla casa della banda dei teppisti cinesi. Girata con il passo di un western, con la magniloquenza di un western, con la leggendarietà di un western, ma con l’animo e lo spirito tutto urbano di questo ultimo Clint Eastwood che da “Un Mondo Perfetto” ad oggi continua nella sua decostruzione del mito americano persosi nelle trame della politica fine a se stessa. Girata con questi crismi, questa scena prepara il campo al punto di non ritorno. L’attore toglie i suoi panni di scena, saluta il pubblico e se ne va dietro le quinte convinto che se non ha fatto granché per il mondo intero, lo ha fatto sicuramente per qualche povero disgraziato ribelle e dissidente che non cerca partiti, ma solo una strada da percorrere in pace e in giustizia e in verità. Quel qualcuno sono io, e ringrazio Clint Eastwood di averci lasciato il compito di tirarlo noi il sipario questa volta, ascoltando la sua debole voce che sussurra la canzone dei titoli di coda e che fa più o meno così: Alla fine la storia è questa, nulla più di quello che hai visto, di quello che hai fatto, di quello che saresti potuto essere restando saldo nella tua pelle... mi stavo giusto chiedendo questo.
Stavolta Ramón colpisce davvero al cuore. E se in “Million Dollar Baby” il cuore ci si inclinava irrimediabile, in “Gran Torino” si spezza senza pudore. Crivellato di colpi, il nostro cuore cade davanti alla grandezza dell’individuo Clint, alla profondità dell’umanesimo di Eastwood-regista, alla verità dell’antieroe che Eastwood-personaggio è e continuerà ad essere.
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