Regia di Danny Boyle vedi scheda film
Con la solita ricercatezza formale che lo contraddistingue ormai nel panorama cinematografico, Danny Boyle ci porta nel vortice emozionale di un nuovo giovane americano, solo che è di Bollywood, periferia americana. Il film è una bellissima storia di tenacia e correttezza, forse dove l’amore viene visto pateticamente come la cosa migliore di cui parlare, che salva tutto, che alla fine trionfa. Ma appunto, alla fine. La totalità del film è invece una discesa poco perturbante ma ugualmente infernale nei meandri della povera gente indiana. Paradossalmente dalle stalle indiane arrivano poi prodotti cinematografici che stanno facendo urlare al nuovo miracolo cinematografico mondiale, pur lasciando più di mezza popolazione nella fame. I compromessi sono lampanti, soprattutto discorsivi. La forma narrativa è la più adatta allo stile di Boyle che privilegia così la postmodernità rispetto a qualsiasi altra inclinazione autoriale. Il risultato è buono, ma non da Oscar, o almeno non da Oscar a pioggia. Il debole, tutto americano, per questo tipo di storie edificanti sui self-made-men di mezzo mondo, unito agli interessi economici nascosti hanno portanto il film a sbaragliare il consenso di pubblico e di critica. Per farlo serviva avere comunque un regista come Boyle al timone, capace di saper raccontare la più patetica e scontata storia tra le peggiori possibili, trita e ritrita, con la verve tipica della contemporaneità. Danny Boyle è seriamente uno dei maggiori registi viventi, capace di firmare autorialmente un film più attraverso la forma che attraverso i contenuti discorsi. Quelli li lascia alle deduzioni del pubblico pensante. O almeno si spera lo sia.
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