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Appaloosa

Regia di Ed Harris vedi scheda film

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La recensione su Appaloosa

di scapigliato
10 stelle

Parafrasando i fratelli Cohen: il western non è un genere per vecchi. Detto questo, parafraso me stesso, autocitando un concetto sostenuto nella mia tesi in letteratura brasiliana sui cangaceiros, ovvero che ad una linearità di pensiero corrisponde una linearità d’azione. Il western è l’apoteosi della linearità, anche quando grandi autori “fuori corso” hanno sgrammaticato il genere reiventandolo. Lineare è anche la storia e l’etica dei personaggi di “Appaloosa”. Virgil Cole (Ed Harris, anche regista di razza) è la legge, si sente la legge; mentre l’amico fidato, Everett Hitch (Viggo Mortensen) è l’stinto solitario del vero westerner. Non nascondo che all’inizio il film covava un’ambiguità etica di fondo che mi metteva a disagio: i due pacificatori, figura realmente esistita nel lontano ovest, arrivano ad Appaloosa, New Mexico, perchè è richiesto il loro intervento contro il bastardo di turno interpretato istrionicamente da Jeremy Irons. Be’, i due si propongono come pacificatori, ma pretendono che sotto di loro ci sia una sola legge: la loro. L’idea che un uomo si prenda il diritto di decidere a suo piacere cos’è giusto e cos’è sbagliato mi irrita. E mi irrita maggiormente proprio perchè sono visceralmente un westerner, di quelli che leggono Emerson, Withman o Thoreaux. Il West, e quindi il western, non è la “terra di mezzo” tolkeniana dove si rifugiano i nostalgici del pugno di ferro e di certi fascismi d’antan, ma è bensì il luogo della libertà endemica, primitivamente etica, alla cui linearità di pensiero corrisponde una linearità di azione. Chi crede al western e ai pistoleri come idoli del militarismo e della forza disciplinatrice dello stato, fa prima a scavare una piccola buca in terra e ficcarci dentro la testa: tanto non le serve.
Fortunatamente il film si riprende da queste sabbie mobili retoriche ed esce dall’empasse grazie alla deriva totaliria che investe uno dei protagonisti, il dinerovestito Ed Harris, che dopo un battibecco imbarazzante con la protagonista femminile su questioni di sesso, s’alza dal tavolo del saloon e pesta a sangue un pover uomo che faceva solo chiasso. É lo snodo destabilizzatore che porta avanzi, linearmente, l’azione narrativa. Da questo punto c’è una certa e visibile ambiguità sul ruolo e i modi dei due personaggi che armi alla mano fanno rispettare la legge. Ma quale legge? Virgil Cole dice “Questa è la legge”, e il suo diretto rivale Jeremy Irons gli rinfaccia “Questa è la tua legge”, e il duro pistolero gli controbatte “E’ la stessa cosa”. Un po’ troppo radicale come sentenza, eppure s’allaccia al grande tema o carattere fondante del genere: l’identità del westerner è la sua etica. Attenzione, parlo di etica e non di morale. E in questo caso, quello di Virgil Cole, è forse più opportuno parlare di quest’ultima, nata e configuratasi intorno a precetti e dottrine create dagli uomini e non negli uomini insite. L’etica all’uomo è connaturata, radicale ed istintiva. In natura non esiste il bene e il male, il giusto o lo sbagliato. Queste categorie di giudizio derivano dalle sovrastrutture umane come chiese, religioni, comunità locali, consuetudini, leggi e stati sovrani. L’etica invece nasce nell’uomo e all’uomo si indirizza, umanisticamente. La ricerca della verità attraverso l’uomo, e non attraverso dio o chi per lui. É l’etica dopotutto del cinema eastwoodiano. E la ritroviamo felicemente nel proseguo del film quando la legge s’impallidisce e subentra l’uomo con le sue contraddizioni, dall’orgoglio alla giustizia, dall’amicizia virile alla tentazione di un focolare.
“Appaloosa” quindi non fortifica il cinema western classico di propagada, ma dopo un sano omaggio alle “origini” abbandona la sua preventiva neoclassicità e segue la pista della modernità, l’epoca in cui il western è maturato, s’è fatto maggiorenne, è diventato il territorio aspro del dibattito politico, sociale e razziale. Persino le questioni di classe e di sesso sono passati dai polverosi paesaggi del Texas e tra le roventi colt di un duello. Da qui, Ed Harris nei panni di Virgil Cole e in quelli del regista fa davvero il suo film: viscerale, sanguigno, lirico, moderno e postmoderno. Dopo il rapimento della sua bella (Renée Zellweger) il regista/pistolero non concede tregua alla rincorsa al suo racconto. Deflagrato qualsiasi alveo di retorica e belle parole a causa della liberazione del cattivo Jeremy Irons, la modulazione narrativa tocca i cardini di ogni western che conta: l’attraversamento di una natura inospitale, gli indiani, il pueblo messicano deserto, il duello nella plaza grande, le scazzottate nei saloon, la dichiarazione d’amicizia virile, il duello finale nella mein street e l’addio del cavaliere solitario che fugge verso il tramonto. Così, interrogando i topoi scelti da Harris per itinerare il suo racconto confermiamo nuovamente la valenza del duello come risoluzione di due termini esistenziali opposti. Così come la vastita delle nature incontrate diventa il teatro delle umane passioni, per dirla come Anthony Mann. Allo stesso modo la figura della donna diventa agente di destabilizzazione attraverso il suo contrario. Invece che essere contesa dai due maschi e quindi metterli irrimediabilmente l’uno contro l’altro, è femminilisticamente libera ed emancipata, così tanto da passare da uomo a uomo a seconda di chi comanda di più, di chi è il maschio alfa del gruppo. Sta con Virgil Cole ma anche con il suo pard kitcarsoniano di Viggo Mortensen, e poi sta con il cattivo Lance Henriksen redivivo e infine pure con il villain titolare del film, Jeremy Irons. Infedeltà? Ninfomania? Opportunismo? Non ci è dato saperlo così facilmente. Ma questo permette di trattare con più profondità e meno ambiguità possibili il classico e fondamentale tema, motivo e discorso ultimo del western: il rapporto, l’amicizia virile, la compañeria maschile. Già nel primo terzo del film, quando Harris sfoga la sua rabbia repressa sul malcapitato, abbiamo un bellissimo e tenero abbraccio omoerotico tra i due attori maschili. A seguire, la donna diventa più un intralcio, e il climax della parabola amicale l’abbiamo quando Harris ammette davanti alla sua donna di fidarsi di più dell’amico che di lei, ovviamente in presenza dell’amico Mortensen che lo asseconda sornione. Passiamo poi dalla scena della stanza azzurra a Rio Seco (nel suo totale una sequenza antologica come il finale di “Open Range”) dove mezzi svestiti, privati quindi del loro personale côté maschio, i due amici si parlano chiaro, si confrontano, si suggeriscono, si fanno promesse: un tipico siparietto da toeletta femminile. Immancabilmente arriva lei, e il trio si ricompone nell’alcova. Da ultimo, il duello finale che relega il maschio alfa a spettatore, mentre l’istintivo “pistolero con i sentimenti” regola finalmente i conti con il cattivo Jeremy Irons per poi allontanarsi verso il sole che tramonta. Un sacrificio etico per permettere che la stoica morale dell’amico possa trovare una seconda possibilità. Mortensen e Harris come le due facce della frontiera, etica e morale; e “Appaloosa” come splendido esempio di western semplice, essenziale, mitologico, insomma: lineare come la vita in natura.

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