Regia di Alfred Hitchcock vedi scheda film
Alfred Hitchcock è il regista, qui alla sua opera quinta, ma non ancora la star di questo film del 1927. Gli sparuti titoli di testa ne relegano il nome in fondo alla prima schermata, dando invece il massimo risalto alla presenza di Ivor Novello, l'allora idolo delle matinées, nel ruolo del protagonista.
Niente come il cinema mostra come i principi estetici legati a ciò si definisce "godimento artistico" possano capovolgersi col passar del tempo, nell'esiguo spazio di un secolo o giù di lì. La struttura narrativa di Downhill si fonda su valori sociali che, pur continuando a godere di cittadinanza negli odierni rapporti umani, raggiungono estremi magari consueti per il cinema muto, ma difficilmente comprensibili oggidì. Il senso dell'onore, anzitutto. La colpevolezza del protagonista è data per acquisita così, senza uno straccio di prova. Lui stesso si fa praticamente crocifiggere per salvare un amico così fraterno da scomparire per il resto del film. I genitori, che fino a quel punto lo hanno considerato il vanto della casata, si allineano senza vacillamenti alla nuova versione, peraltro dettata da una donnetta niente di speciale, che lo dipinge come un debosciato. Idem dicasi per i docenti, i compagni di corso e per tutti coloro che fino ad allora lo avevano portato in palmo di mano. Lui si limita a soffrire in silenzio (il silent sufferer, con quei rinvii impliciti alla passione di Cristo, è un topos del cinema muto di ogni latitudine) e a cadere, mica solo per colpa altrui, sempre più in basso. Il tutto condito da intertitoli moralistici alla Griffith del tipo "The World of Make-Believe" ("Il mondo della finzione") o "The World of Lost Illusions" ("Il mondo delle illusioni perdute"), che ricordano tanto i capitoli dei romanzi dickensiani di qualche decennio prima. Per i gusti odierni il film è quasi invedibile. E tuttavia, il fatto che Ivor Novello, il più carismatico attore inglese degli anni '20, abbia accettato un ruolo di tale insipienza, collaborando per di più alla sceneggiatura, può evitare di farci cadere in giudizi semplicistici, aiutandoci a cogliere meglio l'impatto emotivo che questo tipo di racconti edificanti doveva avere sul pubblico cinematografico e, parallelamente, sullo star system dell'epoca.
Sul piano tecnico, i movimenti di macchina sono ridotti all'osso. I personaggi restano per lo più inquadrati nella loro fissità al centro della scena, sicché ne seguiamo per lo più le vicende come se fossimo a teatro. Pochi gli elementi che prefigurano l'armamentario tecnico hitchcockiano: una lenta zumata verso un oggetto-chiave (in questo caso un berretto con su scritta la parola "Honour", "onore"), emblema di ciò che il protagonista perderà ben presto nella sua progressiva discesa verso la perdizione), la macchina che, identificandosi con l'accusatrice, avanza rapidamente in soggettiva verso i due amici per accentuare la suspense su chi dei due sarà additato come colpevole, e poco altro. Gli ammiratori incondizionati del Maestro ne hanno talora sottolineato le ardite sperimentazioni tecniche nella scena onirica (sovrapposizioni di immagini, montaggio serrato e sfumato) o nella traversata trasognata di Londra (interessante, questo sì, ma da un mero punto di vista documentaristico), tirando in ballo il René Clair di Entr'acte e l'Abel Gance di La folie du docteur Tube e Napoléon. Si tratta, con tutta evidenza, di esagerazioni: Downhill, lontano anni luce dagli sperimentalismi dei film citati, soprattutto i primi due, in cui l'aspetto tecnico sopravanza decisamente quello narrativo, nasce e si dipana come opera convenzionale per spettatori di bocca buona. Checché ne dicano i biografi di Hitchcock, e nonostante la presenza al suo attivo di un capolavoro come Il pensionante (1927), il meglio è ancora di là da venire.
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