Regia di Andrej Konchalovskij vedi scheda film
La nuova casa di Sergey e Ljuda è affollata di invitati: è nato il loro bimbo. Sono abbracciati. I bambini irrompono nella stanza chiusa eccitati dal gioco, ma subito ammutoliscono davanti all’icona incomprensibile di un uomo e una donna. C’è qualcosa di religioso in quella visione, e la religiosità sta nello stato di equilibrio perfetto di quell’immagine, il cui scopo –se mai ne avesse uno- è solo porsi alla visione dell’altro e niente più, come una montagna, un fiume, un lago, un’affresco in una chiesa. Quell’immagine si fa incontro fortuito tra una apparenza e un desiderio di significare l’altro. Ma questa apparenza respinge la significazione, si può porre esclusivamente come significante. Ogni uomo assume una immagine come significante del proprio io deprivato, e ne fa una ‘A’, a cui segue una ‘B’, e poi una ‘C’, realizzando l’abbecedario incomprensibile delle nostre intenzioni inconscie. Una vita passerà prima di fare nostro quel linguaggio, a volergli bene, a parlare con quelle parole che non hanno più in sé la pretesa di essere comprese ma solo riconosciute. È questa la spaventata consapevolezza di Sergey e Ljuda, dopo il trauma che interrotto le loro vite, e ora una grazia speciale –il loro bambino- li visita come un angelo del cielo. Mi accosto con circospezione a scrivere di questo film, visto anni fa a RAI TRE, durante un momento difficile della mia vita, e che raccoglie parti di me qua e là, tra i suoi fotogrammi, che la prima tentazione sarebbe di raccoglierli tutti, e farne un album personale che possa dirne, di quel personaggio che io sono, e che tuttavia mi sfugge. Forse a questo servono i capolavori, ad arrestare una deriva di dominio, il cui semplice esito è mostrare come comprendere sia vano. È possibile solo amare, e in questa arrembante marea che tutto sommerge, scoprire che abbiamo ben oltrepassato l'oggetto del nostro amore, che siamo finiti fuori pista, altrove, rischiando in questo di perdere il filo che ci lega alla vita. Andrej Kon?alovskij raccoglie la storia iniziale dei protagonisti all'interno di un cortile di un vecchio caseggiato, dove il flusso della vita scorre, contiene gli slanci, la fiducia nascente, e l'augurio che la vita mantenga la promessa di felicità che arride a due giovani amanti. Le domande che pone Kon?alovskij sono morbidamente dolorose: come si può trovare ragione di vivere dopo aver perduto il proprio oggetto d'amore? Il dopo che ne segue è vita? Come si può continuare a essere uomini e a credere ancora, quando la passione che ardeva se n'è andata, e si tratta di ricomporne i miseri resti? Tra musica e chiacchiere da cortile, via vai e ritorno a casa, niente è più come prima: Tanya non riconosce più il suo amore. Sergey era creduto morto, e il dolore provato per la sua perdita ha come glaciato le sue emozioni. Forse ha avuto accesso ad un amore più maturo? O forse qualcosa è morto, e si tratta di sopravivere malgrado una gamba amputata, o un braccio, o la testa? Anche Sergey ricomincia a vivere, e qualunque cosa ora lo meraviglia ma senza più entusiasmo, come se le emozioni implodano dentro il suo corpo, e le parole così suscitate non riescono a risalire alle labbra. Ma quando lo sguardo sul suo bambino e sua moglie Liuda abbraccia quel resto fragile che malgrado tutto lo individua come uomo, allora le sue parole escono: “Pianteremo gli alberi, e diventerà bellissimo. Poi arriveranno gli uccelli, e poi tra dieci anni, ci sarà un bel giardino”. La ninnananna prende il posto del rock moscovita e rivoluzionario; sembra cullare i suoi amici invitati al battesimo. Sono gli invitati al battesimo di sè a nuova vita, una vita che ha del miracolo: ha toccato il fondo della morte ed è tornata indietro, seppure in un deserto dove nessuno più lo riconosce. Solo sua madre sa. Sa quanto è sottile questa intercapedine che è la pelle emotiva di suo figlio, rinato alla vita, ad un altro amore, ai suoi amici. L'appartamento ha preso il volo, veleggia tra le nubi. La vita è un viaggio che ci porta via, dove non vogliamo. Si tratta di abbracciare comunque quello che ci offre, e dirsi uomo a partire dalla rassegnata coscienza di essere in ciò che ci è stato tolto, proprio lì dove brilla la luce di una tragica mancanza.
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