Regia di Jean-Marie Straub vedi scheda film
Suggestivo dialogo poetico e mitologico tra due personaggi maschili – Endimione ed un viandante – fermi in un bosco. Il discorso verte su di una creatura selvaggia e misteriosa, sospesa tra realtà ed immaginazione, incontrata dal primo in una radura: è l'incarnazione della verità, che è sì un barlume di luce nell'ombroso intrico della foresta, ma che, allo stesso tempo, inquieta per la sua natura inafferrabile e complessa. È una donna semplice e primitiva, come la dea della caccia, che si lascia a malapena sfiorare, e non porge, alle deferenti e timorose carezze dell'uomo, nulla più del suo ginocchio. Endimione parla di lei come di una figura onirica, perché il sogno è, come la verità, la versione più profonda, e quindi più indecifrabile, della realtà, ossia di ciò che si vede in superficie. E il sogno è, d'altra parte, il percorso individuale per eccellenza, né comunicabile né condivisibile, nel quale ognuno di noi si trova irrimediabilmente solo, alla ricerca del contatto con quella particolare faccia della verità che soltanto a lui è riservata.
La regia riesce a far vivere, e, persino, a far volare, la recitazione, anche nella totale assenza di azione, nella assoluta immobilità, in cui uno degli interpreti rimane addirittura con le spalle rivolte alla macchina da presa. In questo mediometraggio Straub si rivela più che mai un documentarista dell'anima universale, che si manifesta all'obiettivo sotto forma di soffi, di guizzi e palpiti quasi impercettibili, di toni non completamente formati, declamatori anziché drammatici, perché provenienti da una dimensione profonda dell'essere, senza passare per il filtro delle emozioni. Questo è il carattere soffuso delle parole consegnate alla brezza e alla penombra, nel non-teatro della natura, dove sono solo destinate ad esprimere, senza fingere né rappresentare alcunché.
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