Regia di Gabriele Salvatores vedi scheda film
Innanzitutto vi racconto una storia. É quella di un uccellino che per un caso particolare della vita è nato e cresciuto in una tana di topi. Lo hanno sfamato, lo hanno cresciuto, lo hanno educato. L’uccellino esce con loro, senza l’uso delle ali, e va con loro a prendere il formaggio, a dare la caccia ai vermi. Proprio come loro anche l’uccellino sfugge alle insidie di un gatto del cortile. Un giorno un bambino dando la caccia ai topi trova l’uccellino insolitamente nero e cupo: certo, viveva nelle cantine e viveva come un topo. Lo prende con sé e non senza problemi visto che l’uccellino beccava e graffiava come se fosse un topo con i denti e le unghiette. Ma il bambino seppe domarlo e riuscì a portarlo in casa. Messo in una gabbietta per canarini gli diede da mangiare, lo mise sul balcone a contatto con altri uccelli come lui, e soprattutto lo stimolò a volare, ad aprire le ali e fare prove di volo. L’uccellino s’impressionò. Non credeva di saper fare certe cose. Ovvio, non gliele avevano insegnate. Non gli avevano detto che gli uccelli nidificano sugli alberi e non nelle topaie. Non gli avevano detto che gli uccellini aprivano le ali e spiccavano il volo. Così, un giorno, il bambino lasciò aperta la gabbia e l’uccellino prese a volare con altri suoi simili nel cielo.
Cosa c’entra tutto questo? C’entra. L’uccellino non sapeva fare l’uccellino perchè nessuo gli aveva mai proposto un’alternativa alla vita da topo che faceva. Lo stesso, ahinoi, accade in Italia. Ci insegnano da più di un secolo, dal 1861 circa, come bisogna pensare, come bisogna comportarsi, come bisogna gestire il proprio corpo, a cosa bisogna credere e a cosa non bisogna credere. Ci vengono a dire che bisogna aver paura dello straniero, del negro e dell’albanese che ci rubano il lavoro, spacciano e uccidono. Ci vengono a dire che l’unica famiglia possibile è quella tradizionale voluta dalla Chiesa. Ci vengono a dire che un bravo italiano va sempre a messa, rispetta le leggi e ama le forze dell’ordine. Ci vengono a dire che il maestro unico e la scuola privata fanno il bene dello studente. Vengono a dirci che il benessere materiale ci farà vivere meglio. Insomma, la solita insopportabile storia ipocrita: Dio, Patria e Famiglia. Siamo un po’ tutti come quegli uccellini che vivono in mezzo ai ratti senza sapere di avere le ali. Perchè non ce lo dicono. E lo stesso succede a Cristiano, figlio di un disoccupato razzista e omofobo, esaltato militarista che vede nella forza e nella prepotenza l’unico rapporto intersociale possibile. Il primo ha il volto di Alvaro Caleca, il secondo di Filippo Timi. A condurli in questo valzer di rabbia e violenza “l’indefinibile” Salvatores, l’unico regista italiano i cui film non possono appartenere mai a nessuna categoria precisa. E di questo lo ringrazieremo sempre.
Chi vi scrive non ha letto il romanzo di Ammaniti. Però conosce bene il cinema di Salvatores, e se gli rimprovera di non fare più i bei film fuggiaschi di prima, non può che complimentarsi per questa decisa virata nera, diremmo noir. Il suo è un cinema di “territorio”. L’ambiente coprotagonizza con i personggi e ne è uno specchio rivelatore. Anche qui, la natura solida, dura, fredda e distante (le montagne lontane e gli sterminati spazi piatti del Friuli), sono il nido d’amore di questa atipica famiglia. Atipica non perchè la madre è assente o perchè in un certo modo il “fool” interpretato da Elio Germano è un po’ uno di casa, ma soprattutto perchè i rapporti che condizionano e segnano la vita domestica si fondano su logiche imperdonabili: quelle della brutalità e dell’odio. Il padre-padrone interpretato da Timi, che esaspera teatralmente il suo ruolo senza ricordarsi che qui siamo al cinema (difetto tutto italiano), insegna l’odio al figlio, insegna la lotta animale al figlio, gli insegna a diffidare, a sospettare, ad odiare. Il padre fatto da Timi non è altri che l’autorità. É Dio. É lo Stato. É la Famiglia. É, in ultima analisi, la grande menzogna storica che ci hanno iniettato a forza fin dalla nascista. Se nel ’68 si è riusciti a dare scacco a questa autorità e a distruggere l’esclusiva di potere unidirezionale di chi comandava, Salvatores ci dice che oggi non abbiamo saputo costruire un’alternativa giusta. Questo pessimismo di Salvatores, che cavalca questa new-wave di disillusi del ’68, che invece io ringrazio proprio per le conquiste di emancipazione di cui adesso godiamo, è un pessimismo che non da frutto. Resta sullo sfondo freddo e assiderato della notte friulana. Io non credo a questo pessimismo, e vedo nel suo film la stessa grande rabbia di chi all’epoca voleva cambiare e svoltare pagina alla storia. Qui la storia è unamuniana, è la intraistoria delle nostre persone, non quella Storia che fanno gli Stati. Ma sempre storia è, quindi è sempre meritevole di un’attenzione umanista che mette l’uomo al centro del discorso filosofico.
Il film è così girato e strutturato su un vortice, una tempesta (il maltempo la fa da padrone), un twister di forze opposte o che vorrebbero andare all’opposto ma sono ancorate alle regole, ai dictact, alle dottrine. Inizia con un prologo che ricorda “Un Povero Cane” di Emilio De Marchi, dove un cane uscito da non si sa dove comincia ad abbaiare nella notte che gronda neve dal cielo, e un ragazzo, su invito del padre, esce ad ucciderlo. Salvatores fa lo stesso, e questo incipit è tutto dedicato a quella forza della natura che si chiama Alvaro Caleca. Timi, già detto, esaspera; Elio Germano, il miglior attore italiano vivente, gigioneggia è vero, ma al di là delle patetiche scene al presepio dei Puffi, riesce a gelarti il sangue come solo sa fare lui: animalizzando il personaggio. Ma a rubare la scena a tutti, compreso la regia e il testo, è il giovane attore. Un volto che da solo tiene il film. La mdp potrebbe fissarsi in primissimo piano sulla sua magra faccia scavata, bianca, lucente di due occhi che sono un’anima, e lì restarci per tutto l’arco del film. Film che cade, va detto, ogni volta che il giovane Caleca non è in scena. La lunga e patetica sequenza del bosco, snodo centrale della tragedia e della pellicola, si trascina senza fluidità. Anche il finale, raggelato dalla riunione posticcia di padre e figlio non dà valore alla loro storia. Forse Salvatores ha voluto raccontare una storia di imposizioni e ignoranze varie che non poteva condividere, lui che è culturalmente e intellettualmente onesto, così evita di moralizzare, evita il pathos che invece castra immediatamente, lasciando alle scene più emotive il gusto secco di una scivolata, di un tonfo, di un quadro ad olio lasciato lì sul muro.
Se la rilettura scespiriana del film (tragedia e fool) e le interletture di Cappuccetto Rosso e Twin Peaks, aprirebbero altre analisi critiche, la prima cosa che salta all’occhio e che è l’urgenza del regista, forse anche di Ammaniti, è la denuncia senza mezzi termini della retorica tutta italiana sulla Famiglia, la Patria e Dio. Dopotutto il ruolo di Filippo Timi li rappresenta tutti e tre. Chissà se un film di cartellone come questo potrà finalmente lasciare il cittadino italiano libero di capire che se la Famiglia è fondata e basata sull’intolleranza, la repressione e il fanatismo disciplinare, è a tutti gli effetti la più grande agenzia di terrorismo della nostra società. Meglio nuove forme di enucleazione piuttosto che tante altre famiglie alla “Come Dio Comanda”.
Un’ultima raccomandazione: Alvaro Caleca è spiazzante, inspiegabile, bellissimo e di una presenza filmica da attore di razza. Fatelo crescere bene. Non datelo in pasto al gossip, non mettetelo su tutte le copertine, non fategli fare i calendari, non adulatelo con i reality. Fategli fare il gregario, fategli fare la fatica giusta, e dopo la salita il traguardo, quello etico, primitivo, animale, quello della Verità.
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