Regia di Gabriele Salvatores vedi scheda film
Io ho paura. Tutti si ha paura, durante la visione di questo bellissimo film di Salvatores, che si manipola tra suspence, attese, gravitazioni e sospensioni, così come il cielo vuole.
L’avevamo lasciato con l’inconsistente Quo vadis baby? (2005), il regista originario di Napoli, che ora torna nuovamente con una storia scritta dal bravissimo Ammaniti e dal regista stesso ridotta al minimo, per regalarci il massimo che una sceneggiatura possa esprimere. Si, perché, nonostante il film sia molto ellittico, rispetto alla storia del romanzo, tutto torna, tutto funziona e anche le location hanno un ritorno visivo consistente con quanto il romanzo lascia immaginare al lettore.
Trattasi di quella provincia del Nord Italia, precisamente del Friuli: una sorta di landa desolata, disseminata di pendici di maestose montagne e di cime ferrose, da cui si sprigiona il veleno industriale. Case sparse e costruite lungo una superstrada in mezzo ad enormi depositi di legna, centri commerciali e neon. Qui vivono un padre e un figlio. Rino e Cristiano Zena. Rino è un disoccupato, che vive la precarietà famigliare e sociale. Cristiano è uno studente: scuola media inferiore. Il loro è un rapporto d’amore tragico e oscuro. Soli combattono contro tutto e tutti. Rino educa suo figlio come può. Come sa. Cristiano lo ama, lo venera, lo considera il suo faro, la sua guida spirituale, alla maniera di quel che De André diceva di quell’“innocente lo seguì, senza le armi lo seguì, sulla sua cattiva strada”. Si tratta di un amore sbagliato, ma potentissimo. Entrambi, in comune hanno un solo amico, Quattro Formaggi, che consuma la sua vita, i suoi desideri e i suoi amori, tra presepi coi Puffi e bambole che assomigliano a la ragazza di Lars.
Il film è molto musicale, non solo per quello che sempre accade nei lavori di Salvatores, la ricerca musicale (molto interessante il rock dei romani Mokadelic, che firmano la colonna sonora del film), ma per i rimandi che provoca. A proposito del padre, per esempio, come fare a meno di pensare a quello che Ferretti scriveva: “come un animale che non sa capire, guardo il mondo con occhio lineare, come un animale che non sa cos'è il dolore, che non può capire, nel tempo di morire, cerco un posto che non si può trovare”. Infatti, padre e figlio, come in Io non ho paura, vivono come in quelle antiche favole, densamente abitate nei boschi, dove il ‘lupo’ e ‘cappuccetto rosso’, non sanno d’appartenere alla stessa famiglia e guardano il mondo “con occhio lineare”, quasi privato della possibilità del male. Non sarà un caso anche che il film è girato praticamente tutto con la macchina in spalla: ci si muove con gli attori, li si spia, li si segue sotto la pioggia o nel fango, ci si intromette finanche nelle loro risse o nei loro abbracci. Guai a farsi accorgere (la maestria del regista che osserva senza farsi guardare), interromperli. Piuttosto, ci si infradicia e sporca di fango con loro. E non c’è verso neanche di riprendersi con un respiro, dalle forti emozioni, alle quali si resta sempre ancorati, per merito di un ferratissimo e straordinario montaggio (Massimo Fiocchi). Si notano le preferenze del Salvatores cinefilo: dall’amore omaggiato per Hitchcock, a Van Sant, passando per Cronenberg. Ottimo anche il cast, dal bravissimo esordiente Alvaro Calca, all’immenso, come sempre, Filippo Timi: difficile non emozionarsi nella scena finale per la veridicità della prova; invece, un po’ troppo sopra le righe (troppe smorfie), la prova di Elio Germano.
Quella di Salvatores è l’ennesima prova di come il cinema italiano, checché ne possano pensare i grandi ‘esperti’ di cinema, non è affatto in crisi, anzi vive nuovamente il suo momento migliore, perché forse libero da certi vizi capitali, ma anche paesani, di considerare “nemo profeta in patria”. Insomma, finalmente, un film come dio comanda.
Giancarlo Visitilli
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