Regia di Jan Cvitkovic vedi scheda film
ODGROBADOGROBA
Non si poteva introdurre meglio la 17a edizione del Trieste Film Festival che con il secondo lungometraggio di Jan Cvitkovic. Non si tratta di una frase ad effetto, buttata lì con intenti encomiastici, ma dell’affermazione di una più viva consonanza del festival e, crediamo, della città di Trieste con le atmosfere, le suggestioni e la veemenza esasperata che sono proprie solo alla cinematografia prodotta dai popoli che concorrevano a formare la Jugoslavia. Sarà forse per la vicinanza territoriale – le riprese di Odgrobadogroba sono state fatte nella parte Slovena del Carso – o per quell’intensità di luce, si direbbe così specifica di quei luoghi, quando il sole all’imbrunire cade radente sui volti degli attori ad illuminare anche campi, declivi e colline. C’è qualcosa di acuto, lancinante che penetra negli occhi e provoca una combustione dell’anima. È forse questo tutto il male, o buona parte di esso, che esaspera da sempre quei popoli in modo così crudele. Non c’è posto per le parole, in quei momenti. Solo silenzi improvvisi, interrogativi, caustici.
Capita così che il film di Cvitkovic si apra con lo sguardo del protagonista su di noi a denunciare la condivisione di una condizione umana sospesa tra cielo e terra, che non c’è dato di afferrare, ma che possiamo solo subire. La cinepresa si allarga, poi, a circoscrivere le parole dell’uomo e ad abbracciare gli astanti che si trovano nelle sue immediate vicinanze. Ci troviamo, di conseguenza, in un piccolo cimitero dove un oratore aiuta congiunti ed amici a piangere l’ultimo defunto. Attraverso di lui, il regista – autore anche della sceneggiatura - facendosi schermo di un mestiere su cui sembra voler dispiegare un’ironia dolce/amara, ma sul quale in effetti non dà giudizi, esprimendo una pura testimonianza, uno sguardo sull’incomprensibile, dice cose semplici e profondamente umane del rapporto che abbiamo con la vita e con la morte. Quest’uomo, autore professionista di orazioni funebri, passa la sua vita Di tomba in tomba (questo il titolo del film in italiano) a tentare d’interpretare il dolore di coloro che furono vicini al morto. È una sorta di delega di cui viene investito da parenti che fanno in questo modo professione di pubblica afflizione. Finché, all’ultima morte, quella dell’amico meccanico che gli fa da autista e fedele compagno delle sue scorribande letterarie e non, non riesce a trovare più parole e volge lo sguardo al cielo, non con atteggiamento di fede, ma – ci è parso di capire – in cerca di una spiegazione che sa di non poter trovare. Non è una forma di ribellione, anche se quello sguardo attonito fatica a riposare nelle parole di Salinger che ci consola con la presenza di un Dio cosmico che dimora in tutti noi.
Nel film troviamo numerosi altri personaggi, tutti immersi in un fluido ambiguo, un liquido oscuro nel quale pochi si salvano e i più soccombono. La ragazza sordomuta – che sembra fare le veci del classico matto del paese – è un folletto, quasi un fuoco fatuo che appare all’improvviso nei posti più impensati. Sceglierà di morire sepolta viva all’interno dell’automobile insieme con l’unico uomo che l’ha amata e che ha vendicato nel sangue le torture che lei ha subito. È, questa, una scena in cui la dolcezza e la crudeltà si sposano in maniera perfetta, lasciando allo spettatore un ulteriore sguardo sulla tragica follia di quelle popolazioni.
Jan Cvitkovic è stato definito un regista per caso. Non mostra particolare interesse per il mondo del cinema e pare che non accetti paralleli con altri colleghi. Ciò detto, questo archeologo che si è trovato a scrivere sceneggiature e, poi, a fare corti e lungometraggi per una concatenazione di circostanze – a suo dire – fortuite e, soprattutto, per necessità economiche, si è inserito con grande forza nel mondo da cui prende le distanze. E non ci pare che questo sia avvenuto suo malgrado. Al suo secondo lungometraggio è stato capace di toccare corde e di evocare immagini di un’intensità tale da dimostrare di aver supplito alla mancanza di esperienza con una consonanza e una idoneità miracolose. La forza di quelle immagini – soprattutto la scena della morte condivisa - ci ha rammentato un altro luogo cinematografico, il protagonista di Bure Baruta (film del 1998 di Goran Paskaljevic) chesi lascia esplodere – si direbbe con raccapricciante indifferenza – togliendo la sicura ad una bomba, mentre tiene stretta a sé una donna. Ma, se in Paskaljevic la misantropia nichilista (per dirla col Morandini) non può scendere a patti o concedere sconti, lo smarrimento panico di Cvitkovic dà luogo ad un perenne contatto dialettico con l’al di là e quella morte non è blasfema, ma risuona della pietas e di sentimenti che hanno a che vedere con la gratitudine, l’amore, il legame di sangue.
Odgrobadogroba è attraversato anche da lampi di humour nero, certe forme di comicità difficilmente spiegabili se non come un modo per esorcizzare la tragedia della vita, con la quale, a buon conto, dialogano in maniera serrata. Il principale veicolo di questi momenti è il padre del protagonista, un uomo depresso che – dopo la morte della moglie – non solo non trova più motivazioni alla vita, ma neppure la forza di parlare e tenta continuamente la strada del suicidio, creando situazioni paradossalmente esilaranti. È uno di quei pochi che si salvano, grazie all’arrivo di un’altra donna. Mentre gli altri attorno a lui muoiono, lui riprende a vivere: una bella metafora dell’inspiegabilità e dell’inafferrabilità della speranza.
L’ultima parola è lasciata al protagonista, con due occhi che si allontanano insieme alla cinepresa in direzione del cielo, alla ricerca di una forma di rassegnazione.
Con Odgrobadogroba, la cinematografia dell’ex Jugoslavia si e ci arricchisce di una nuova testimonianza, un contributo che s’inserisce a buon diritto fra i più significativi nel flusso culturale, estetico ed esistenziale di quelle terre. Abbiamo tralasciato di proposito il termine politico in quest’ultima considerazione. Quella cinematografia ci sembra – di fatto – non incline a ricercare spiegazioni di natura sociale, ma volta, invece, a rappresentare il dramma di una condizione umana non identificata, non riconducibile a qualcosa che, volendola spiegare, rischi di appiattirla o falsarla. È un grido, un’esternazione sempre violenta; non la si può circoscrivere o soffocare, ma solo subire, come quella presenza divina, lontana e inafferrabile.
Il film, già premiato a Cottbus (Germania), San Sebastian e Torino, è stato l’evento speciale d’inaugurazione di Trieste Film Festival, sicuramente uno dei suoi momenti più elevati. Il regista, presente nell’edizione passata col cortometraggio Srce je kos mesa (Il cuore è un pezzo di carne), aveva vinto il Leone degli esordienti a Venezia. 58 con Kruh in Mleko (Pane e latte).
THEOPHILUS
20 gennaio 2006
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