Regia di Koen Mortier vedi scheda film
Maledettismo demenziale. Una crudele poesia del disgusto, spesso volgarmente rabbiosa, talvolta spietatamente ironica. La gracidante (anti)estetica di Koen Mortier si colloca sul confine tagliente dove l’iperrealismo incontra il surrealismo, e lo splatter è lo schianto con cui l’inutilità della vita pone sadicamente fine alle proprie lancinanti contraddizioni. In questa eyemotional experience l’autolesionismo dello sguardo è avidità di sensazioni penetranti, che squassano la comune logica dei desideri, invocando la devastazione del nonsenso. La realtà gode, perversamente, delle proprie menomazioni, usandole come rampa di lancio per gli eccessi, quelli che si sparano a razzo contro il soffitto o si proiettano acrobaticamente contro la normale direzione del tempo. Per la band dei Feminists, formata da quattro uomini handicappati, il sentimento del contrario è una brutale inversione della natura umana, in cui si rema controcorrente sputando sangue, pur di negare, fino alla morte, ogni amore per il bene, ed ogni attrazione per il bello. Koen odia e massacra le donne che possiede, e la moglie di Ivan si vanta del proprio cattivo odore: l’esibizionismo dell’orrido è la più totalizzante forma di aggressività, che affonda le unghie nella propria carne, e – ciò che, al giorno d’oggi, è ben più grave - fa polpette della propria immagine sociale. Coltivare l’inaccettabilità, spingendo al massimo l’acceleratore del degrado, è come esplorare le cavità sotterranee dell’esistenza, andando sempre più in profondità, fino ad uscire dall’altra parte, a testa in giù, e trovare un altro mondo, un mondo capovolto, di cui fare ancora scempio, ma in maniera più spettacolare. Sfidare la forza di gravità, le leggi della natura, lo stesso istinto di sopravvivenza è lo show di chi vede nella stessa bestialità una condizione troppo limitativa e non sufficientemente ribelle. Per opporsi alla ragione, il cervello deve coscientemente divorarsi, mordere i propri pensieri, fare a pezzi le proprie conclusioni, fino a perdersi in un turbinio di disturbanti paradossi. In questo modo la volontà si annienta, fino a che l’anima, venuta meno ogni resistenza, si lascia risucchiare, in caduta libera, nella psichedelica vertigine della negatività. Delirio e tripudio sono gli aspetti complementari di questa deflagrazione della mente, a cui ognuno partecipa singolarmente, secondo una propria traiettoria di fuga. La folla del concerto rock di Leffinge è il coro polifonico che interpreta una catastrofe a più voci, in cui tutti gridano per non essere salvati. Volersi del male, offendersi, è come spalleggiarsi in questa apocalisse programmata, in cui la liberazione finale avviene attraverso l’eliminazione progressiva di ogni parvenza di orgoglio e di felicità. L’ex drummer Dries è il catalizzatore di questo processo, colui che non crede nella forza di coesione della massa, e che fa leva sulla sua disomogenea follia per spingerla verso la reciproca distruzione. Le sofferenze individuali si possono trasformare in altrettante frecce impazzite, che si incrociano nell’aria provocando una caotica strage: è quella scatenata dalla stessa energia suicida, quando questa perde l’orientamento e sbaglia fatalmente la mira. Eppure l’ecatombe non è il punto di arrivo; è l’evento che è già avvenuto, prima dell’inizio della storia, quando Koen Mortier prende a filmare un universo in cui ogni ideale è morto, e tutto si è ridotto a materia ubriaca della propria assurda ripugnanza.
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