Regia di Barbet Schroeder vedi scheda film
I was standing by the Nile
When I saw the lady smile
I would take her for a while
For a while
Like tears that like a child
How her golden hair was blowing wild
Then she spread her wings to fly
For to fly
Soaring high above the breezes
Going always where she pleases
She will make it to the island
In the Sun
I will follow in her shadow
As I watch her from my window
One day I will catch her eye
She is calling from the deep
Summoning my soul to endless sleep
She is bound to drag me down
Drag me down
[Pink Floyd - The Nile Song - testi e musica di Roger Waters]
Le note immortali del Main Theme della colonna sonora accompagnano i titoli di testa del film e il viaggio in autostop del protagonista Stefan Brückner (Klaus Grünberg) verso Parigi: “Avevo immaginato questo viaggio come una ricerca. Avevo finito gli studi di matematica e volevo cominciare a vivere: volevo tagliare i ponti, bruciare le formule e, se mi fossi bruciato anch’io, mi sarebbe andato bene. Volevo stare al caldo, volevo il sole e andai a cercarlo”. Parigi, comunque, è soltanto una breve tappa: la meta di Stefan, proveniente da Lubecca, è Fez, in Marocco (“Mi interessano i matematici arabi”, spiega al giovane spiantato Charlie che incontra in un bar), anche se ha bisogno di denaro per arrivarci. Tutti i soldi con cui era partito, infatti, se li è lasciati prosciugare dalla cattiva compagnia di Charlie (Michel Chanderli), ladruncolo con cui ha stretto amicizia appena arrivato in città:
“Come rimediamo un po’ di grana?”.
“Lavoriamo”.
“Facendo cosa?”.
“Non lo so. Potremmo vendere cartoline, mappe della metropolitana o qualcosa del genere”.
“Sì, mi ci vedo proprio”.
“Potremmo gestire delle squillo”.
“È come per le carte, serve un capitale”.
Poi, The Nile Song in colonna sonora (seguita, poi, dall’inedita e magnifica Seabirds, scritta da Roger Waters e non inclusa dai Pink Floyd nell’album ufficiale Soundtrack from the Film More) e il “detour” nella vita di Stefan: durante una festa nell’appartamento di un riccone americano nella Parigi-chic (mentre Charlie si “dedica” alle borsette e alle tasche dei cappotti), conosce Estelle (Mimsy Farmer), la bellissima (e tossicodipendente) figlia del padrone di casa. Il colpo di fulmine (cullato dalle note di Cymbaline) è imprevisto e travolgente: l’ago della bussola si sposta, così, fino a Ibiza, nuova meta del viaggio di Stefan (la quest: “Volevo il sole e andai a cercarlo”), dove i due giovani si sono dati appuntamento.
Fuga, passione, droghe, finalmente il sole: “Conosci gli adoratori del sole? Sono giovani di Calcutta che passano la loro vita ad adorare il sole: si siedono a gambe incrociate, completamente nudi, e lo fissano tutto il giorno. Presto diventano ciechi e dopo un anno avvizziscono come piante e muoiono”. Si chiudono nel loro angolo di paradiso (“Estelle non voleva uscire: aveva paura di tutto, a parte casa nostra”), fermano il mondo e, partiti dal nulla (“Cosa fa Charlie?”, “Niente”, “E tu?”, “Niente. E tu?”, “Niente”), sprofondano nel vuoto. È il momento dell’eroina, per accecarsi di fronte a un nuovo sole, e poi giù, in fretta, fino al punto di non ritorno, “di più, ancora di più”:
“Mister Bruckner, posso farle qualche domanda sull’esperienza di ieri sera? Come si sente stamattina?”.
“Bene”.
“E come si è sentito ieri sera?”.
“La ringrazio, benissimo! Fantastico!”.
“Ne è valsa la pena?”.
“Credo che ogni cosa abbia un prezzo: più è di valore, più si paga”.
“Certamente”.
“Nessuno capisce l’indole tedesca: non c’è piacere senza tragedia. Ne hai ancora?”.
“Stai attento”.
“Ce l’hai?”.
Il viaggio, il “journey” iniziale, è ora deformazione, “trip” (On a trip to Cirrus Minor / Saw a crater in the Sun / A thousand miles of moonlight later, cantano i Pink Floyd in Cirrus Minor), prima di sprofondare, “quando il tempo sparì”. Per pagarsi l’eroina, Stefan viene obbligato a lavorare nel bar di Ernesto Wolf (Heinz Engelmann), uno dei boss dell’isola, lo spacciatore nazista a cui Estelle, prima di fuggire con Stefan, aveva rubato oltre duecento dosi. Precipitano, sempre più velocemente (We cry and cry / We cry and cry / Sadness passes in a while, da Crying Song):
“Non hai niente da dire?”.
“No”.
“Come mai?”.
“Sono di cattivo umore”.
“Perfetto, anch’io”.
Provano, con un improvviso barlume di lucidità, a uscirne, ripagano anche il debito con Wolf, ma poi, con fatale incoscienza, tornano nell’oblio: “7 settembre: finì una settimana d’inferno. Provammo a curarci da soli: cercavamo dei surrogati, prendevamo l’LSD con la scusa che per gli alcolizzati funzionava“. Continuano a guardare il sole, adesso oscurato dalle nuvole, credendosi ancora liberi e convinti di poter cogliere “la realtà ultima delle cose, delle sue infinite sfaccettature”, ma si scoprono, invece, soltanto illusi, disperati, travolti dalla vertigine: “Il mondo era come nuovo: ero assetato di assoluto e purezza, riuscivo ad affrontare l’abominevole alienazione in cui ero precipitato. Una calma interiore mi diceva che non mi sarei più bucato. Questo brutale faccia a faccia con noi stessi fu doloroso, specialmente per Estelle, anche se per lei non era il primo trip”. Ritrovano qualche attimo di felicità, sicuri di potersi mantenere in equilibrio sul ciglio del baratro e fingersi in armonia con il mondo, poi crollano.
“Adesso è inverno. Siamo di nuovo due tossici”.
Charlie, giunto inaspettatamente a Ibiza, riesce a scovarli: vorrebbe riportare via Stefan, convincerlo ad abbandonare Estelle e a tornare con lui a Parigi per curarsi, ma è ormai troppo tardi. Stefan scopre che Estelle continua a frequentare Wolf, litigano, si ritrova solo, poi la fine: esce a cercare l’eroina, si spara le ultime due dosi fatali, muore.
“Quegli stupidi bastardi pensarono si fosse ammazzato e non vollero dargli una sepoltura religiosa. Era inverno, ma il sole splendeva come fosse estate”.
L’esordio alla regia di Barbet Schroeder, nato a Teheran da madre tedesca e padre svizzero, infanzia e giovinezza in giro per il mondo (Africa, Colombia, India) prima di stabilirsi definitivamente a Parigi, dove si laurea in filosofia, collabora con i Cahiers du Cinéma e, nel 1962, fonda insieme a Eric Rohmer la società Les Films du Losange. Girato in 35mm, senza luci artificiali e senza suono in presa diretta, ma incorniciato dalla meravigliosa fotografia di Néstor Almendros (anche art director insieme a Fran Lewis) e ulteriormente impreziosito dalla storica colonna sonora composta ed eseguita dai Pink Floyd, uscito sotto bandiera lussemburghese (nello stesso anno in cui Schroeder si dedica alla produzione di La mia notte con Maud di Rohmer) per aggirare i divieti della censura francese, More è ancora oggi considerato come uno tra i più celebri film-manifesto realizzati nell'epoca della cultura hippy: in realtà, però, i riferimenti più diretti ai fermenti di quell’irripetibile stagione sfiorano solo superficialmente l’argomento, limitandosi a cenni spesso rapidi e scontati (la libertà dei costumi, le feste, le droghe leggere) o a qualche scarna battuta di dialogo, come questo tra Estelle e Stefan:
“Chi si fa di ero vuole sfuggire alla vita, chi fuma o prende gli acidi vuole dare intensità alla vita. Gli hippies criticano l’ero e i tossici criticano gli hippies, che credono di aver scoperto il mondo: difficilmente si mischiano, hanno vite completamente diverse”.
“Quindi tu sei un’eccezione?”.
“Sì”.
Racconta Schroeder (da La Nouvelle Vague: 45 anni dopo - a cura di Aldo Tassone - Il Castoro, 2002): “Il film non costò molto (trecentomila dollari dell’epoca), non c’era il suono in presa diretta… Ma non ha avuto successo. C’erano cose originali, mai viste, una sorta di edonismo della natura. Vi si ritrovava lo spirito del tempo. In realtà è una storia tragica e di distruzione che ha molto poco a che fare con la moda del tempo”. Più che il riflesso allucinato di un’epoca, perciò, More ripropone con spirito, colori e suoni (moderatamente) psichedelici il nerissimo crescendo di disperazione e i tormenti che sconvolsero l’eroinomane Frankie Machine in L’uomo dal braccio d’oro (senza, però, possedere lo spessore e l’incisività del film di Otto Preminger), tratteggiando con altalenante vigore l'identico (ad esclusione del finale) percorso autodistruttivo che trascinerà il protagonista Stefan, novello Icaro, partito alla ricerca del sole e precipitato nelle tenebre, fino alla morte.
Maggiormente a fuoco, invece, si rivela l’impostazione drammaturgica del film, scritto dallo stesso regista insieme a Paul Gégauff (con la collaborazione di Mimsy Farmer, Eugène Archer e Paul Gardner alla stesura definitiva dei dialoghi): Schroeder sceglie di non indugiare eccessivamente sul lato più selvaggio della tossicodipendenza (l'astinenza) per esplorare anche la facilità della (caduta in) tentazione, fondendo la poetica/estetica della decadenza con gli elementi classici del road movie (la ricerca esistenziale e l’esigenza di libertà alla base del viaggio) e con quelli del noir (la droga rubata al villain nazista, la fuga, la dark lady, il Caso, l’antieroe, la disperazione), per poi avvicinarsi sempre più ai personaggi e (sof)fermarsi sull’attimo della caduta, fotografandone il volo incosciente e accompagnandoli fino allo schianto. L’intimità che Schroeder raggiunge con i suoi due giovani protagonisti non è, però, abbastanza profonda da evitare che le stereotipizzazioni della scrittura si soffermino spesso sulle conseguenze più immediate e canoniche del loro dramma: pur evitando inutili compiacimenti moralistici, la discesa agli inferi di Stefan e Estelle finisce con l’apparire soltanto frenetica e drammatica piuttosto che realmente tragica e potente (“Non c’è piacere senza tragedia”), oltre che eccessivamente appesantita dalla meccanica artificiosità dei simbolismi utilizzati (dal donchisciottesco mulino a vento - “Il nemico! Alla carica!” - al tunnel che dal castello di Ibiza conduce verso il mare, imboccato da Stefan, insieme a Estelle, all’inizio del loro idillio e poi teatro, in una comunque splendida sequenza, della sua morte nel finale).
Allo status di opera di culto che ha accompagnato More nel corso dei decenni, poi, ha senza dubbio contribuito la colonna sonora composta dai Pink Floyd (ricorda Schroeder: “Per quanto mi riguarda, io ho lavorato con Roger Waters: lui era il polo creativo. Certo, all’epoca la coesione del gruppo era perfetta, ma comunque era con Waters che parlavo”): la band inglese, al terzo album in carriera (il primo ufficiale del dopo-Syd Barrett) e alla prima delle due collaborazioni con il regista (seguirà, nel 1972, La Vallée, con la pubblicazione di Obscured by Clouds), compone e registra in soli otto giorni una quindicina di brani (con un compenso di seicento sterline a testa per ognuno dei componenti del gruppo), realizzando uno score suggestivo e lisergico (con perle assolute del calibro di Main Theme, Cirrus Minor, Cymbaline, The Nile Song, Party Sequence, Quicksilver), snodo fondamentale, insieme al successivo Ummagumma, nella loro discografia.
Pur con le sue innegabili imperfezioni e i suoi discutibili eccessi didascalici, ma anche con il rigore e lo smalto della messinscena, More si rivela opera molto più sincera e ispirata dell'aura maledetta da film-scandalo che ne salutò l'uscita nelle sale cinematografiche, illuminando con algido distacco il tunnel della perdizione, sgretolando cinicamente sogni e illusioni dei suoi protagonisti e trasformando in fatale ossessione la loro storia d'amore tossico per restituirne una visione sicuramente sofferta e impietosa.
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