Regia di Fabrice Du Welz vedi scheda film
Cantante girovago a bordo di un furgone, si sposta dalla pensione per anziani dove ha intrattenuto e ammaliato le numerose e incartapecorite spettatrici femminili al luogo dove si esibirà in occasione delle festività natalizie. Smarritosi in una brumosa strada di campagna e con il mezzo in panne, viene accolto nella locanda di un ridanciano ed eccentrico albergatore che,dopo l'abbandono della moglie, vive da molto tempo in solitudine e senza il becco d'un cliente. Ben presto si accorgerà a proprie spese che il suo ospite, come la sparuta e primitiva comunità maschile che popola il luogo, vive da anni nell'attesa di una agognata e idealizzata presenza femminile. Horror antropologico che parte dalla sordina di una provincia francesce di tardive pulsioni sessuali e sentimentali per spostarsi sul piano di un orizzonte sociale di cattività ed abbrutimento presto trasformato nello scenario surreale ed allegorico di una immendabile solidutide della condizione umana. Forte di una messa in scena che precipita il protagonista nell'incubo alienante di un personale contrappasso sessuale (dal rifiuto di vogliose e repellenti vecchiette ad oggetto del desiderio di una sordida comunità di villici che lo hanno scambiato per l'unica donna avessero mai conosciuta) il film di Du Welz appare come un riuscito esperimento cinematografico che unisce alle ambizioni formali del linguaggio (il passaggio dal piano reale a quello allegorico, il rituale grottesco e surreale insieme di un lugubre ballo per soli uomini, la scena finale di una patetica espiazione nel desolato scenario di un Golgota provenzale) il sottostesto di un atroce e disperato percorso di redenzione dell'uomo presente alla propria solitudine. Più vicino alla tradizione allegorica e onirica del cinema belga che alle attitudini realiste di quello francese, si osserva tuttavia una certa compressione di una materia narrativa che avrebbe dovuto sviluppare meglio caratteri e psicologie e che invece appare, soprattutto nella parte finale, irrisolto e afflitto da una certa frammentazione degli scenari e da un montaggio che finisce per confondere e intersecare i due piani della narazione, precipitando lo spettatore in una terra di nessuno che, come lo stesso film, sembra non condurre da nessuna parte. Inquietanti le musiche originali di Vincent Cahay e magnifica la fotografia di Benoît Debie nel restituirci atmosfere di opprimente e angosciosa rarefazione. Presentato al Festival di Cannes 2004.
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