Regia di Fabrice Du Welz vedi scheda film
Marc è un cantante nomade, si esibisce in case di riposo, intona pop song strappalacrime, invita il vetusto pubblico femminile ad ammirarlo: si vuole oggetto del desiderio, titilla ricordi d’istinti bassoventrali per preservare il proprio triste mercato. Quando finisce in un villaggio di campagna, abitato da soli uomini, le sue misere colpe degenerano nel calvario di pene insostenibili. Lungometraggio d’esordio del belga Fabrice Du Welz, ritorna, come vuole il nuovo orrore francofono, ai luoghi del new horror americano anni 70, alla metafora rappresa in micromondi marginali, sordidi, aberranti, alle torture fisiche come contrappasso di colpe sociali. Qui il fulcro è il maschilismo, che sul maschio si ritorce, brutalmente, trasformandolo in una donna mito anelata e stuprata: tra Psyco e Non aprite quella porta, tra L’ultima casa a sinistra e una versione al netto delle virtù di Justine di De Sade, Calvaire è antintellettuale, violento, regressivo, dramma così fisico da sdegnare la compostezza dei corpi e puntare alla deformazione grottesca, capace di creare tensione continua, immune alla tentazione di ammorbidire nell’ironia, serio anche quando rasenta il ridicolo. Vinyan, l’opera successiva di Du Welz, conferma il regista non come mestierante di genere, ma autore perturbante, primitivo come Dumont, virtuoso come Noè.
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